
La passione dello scrittore per la sua patria raccontata da Victoria Ocampo: “Nella sua maniera di amare la Francia riconoscono il suo modo di amare le donne”
“Ne uccide più la penna che la spada”, recita un detto popolare che deriva da un versetto biblico del Siracide, e Roger Nimier, nel suo romanzo “Le Spade”, non pare smentirlo. Impossibile dunque che qualcuno con un nome del genere non dimostri acutezza nel delineare, quasi chirurgicamente ma non senza poesia, un rapporto – quello tra Pierre Drieu la Rochelle e Parigi – fatto di brusche separazioni, ma anche di imperfette riconciliazioni, come lembi di una ferita (ovviamente di arma da taglio!) ricuciti insieme.
E nulla toglie, anzi, aggiunge, alla perizia della ricostruzione contenuta nel volumetto edito da Bietti (“Le Parigi di Drieu”, 111 pagine, 6,99 euro), l’osservazione che Stenio Solinas fa nella prefazione riguardo al “non radicamento” di Drieu, che in molti suoi romanzi sceglie un’ambientazione altra – si pensi alla Grecia di “Una donna alla finestra”, alla Bolivia un po’ immaginaria de “L’uomo a cavallo” e all’“Intermezzo Romano” – e, perfino nei romanzi parigini, non insiste sui luoghi con la stessa ostinazione e riconoscibilità di un Céline o di un Brasillach.
Eppure Drieu era un vero flâneur e un camminatore instancabile, che di sé, nei suoi romanzi, non aveva risparmiato nulla, nemmeno le debolezze più sconvenienti, pur messe in scena per il tramite dei suoi personaggi, d’altronde molto spesso palesemente autobiografici. Così, a ben vedere, non stupisce poi troppo che anche il rapporto con Parigi, tanto complesso e “indicibile”, lo si ritrovi espresso, quasi per interposta persona, da Gerhard Heller nel suo “Un Allemand a Paris” (il tedesco scriverà: “Ho camminato fino all’Hôtel Scribe, dove alloggiavamo. Quante volte avrei camminato così, da solo, in questa città, per quattro anni. Un passante a Parigi, sempre a rimuginare sulla mia strana situazione, con un misto di gioia e angoscia”, una sensazione di estraneità che certo Drieu conosceva bene ovunque andasse e, per certi versi soprattutto, a Parigi) e, specularmente “al femminile”, chiave di lettura decisamente più congeniale al Nostro, nell’inedito “La parigina”, pubblicato di recente da Pangea.
Benché non stanziale ed inquieto, Drieu non è un globe-trotter à la Steven Runciman, però: non viaggia certo, con la mente o con il corpo che sia, per appagare una curiosità puramente accademica. Piuttosto, azzardando un po’, è un Lord Byron del ‘900, mosso da un ideale o da un’ideologia, magari tutta sua, e dall’idea di servirla, con tutte le ingenuità del caso – si veda, per questo, la raccolta di articoli completa intitolata “Cronaca Politica”, in uscita per Passaggio al Bosco in autunno.
E, se è vero che la parabola della sua vita attiva è un po’ byroniana, gli ultimi anni del suo “Strano viaggio” non saranno affatto eroici come la morte del poeta a Missolongi, bensì più simili a un pellegrinaggio, anzi, a una Via Crucis, intrapresa sotto la protezione della sua prima moglie, Colette, premurosa fino al suo ultimo respiro nonostante la fine ingloriosa del loro matrimonio.
Tuttavia, l’unica donna che davvero è riuscita a comprendere e, cosa ancor più miracolosa, a sintetizzare il conflittuale rapporto di Drieu con la Francia e Parigi è stata Victoria Ocampo in una delle sue lettere, riunite nel bel volumetto edito da Archinto “Amarti non è stato un errore”: “Nella sua maniera di amare la Francia riconoscono il suo modo di amare le donne”, scrive Victoria, che per Drieu è un controsenso vivente, al contempo respingente e attraente. Non è un caso che un esperto di Drieu come Solinas abbia compendiato questo loro rapporto sotto il titolo “Quando l’amore è troppo intelligente”. Vale la pena di chiosare, però, che “intelligente” è l’amore di Victoria, quello di Drieu è splendidamente ottuso, sia quando è rivolto alle donne che quando è rivolto agli amici o ai politici. È proprio questo che ce lo rende tanto caro.
Camilla Scarpa ©barbadillo.it 24 luglio 2025