
“CREDETEMI, LARS non è un uomo che si priva di solleticamenti o curiosità, intellettualmente, artisticamente o socialmente. A volte viene accusato di essere misogino – e il suo comportamento di allora non sarebbe stato del tutto in linea con l’atmosfera odierna del MeToo e della cancel culture –, ma posso dirvi che ai miei occhi è sempre stato protettivo e si è identificato più con i personaggi femminili che con
quelli maschili, più con le attrici che con gli attori. Il fatto è che sfida le donne allo stesso modo con cui sfida sé stesso. E può essere dolce e generoso, ma non sempre educato nella sua schiettezza”.
O almeno questo è quello che afferma Willem Dafoe (che ha lavorato con lui in Manderlay, Antichrist, Nymphomaniac e The Kingdom Exodus) nella prefazione di Lars von Trier. La luce oscura (Bietti, pagg 644, € 24,00), la dettagliatissima monografia che Elisa Battistini dedica al più controverso e provocatorio dei cineasti danesi, secondo il quale “la buona arte” viene creata “in condizioni dittatoriali” perché “le persone devono godere nell’essere guidate. Ho detto prima che è una foresta nera, quella che le persone devono attraversare, e hanno paura a farlo. Ma se hanno un amico che dice: ’Conosco la foresta’, lo seguiranno volentieri. E poi si godranno questa foresta nera. E questo è, in qualche modo, il mio principio”.
Come afferma (e conferma) Peter Schepelern, suo docente di cinema all’Università di Copenaghen (epoca in
cui il futuro regista e sceneggiatore aveva già ben chiari i propri temi d’elezione, ovvero: morte, ansia, perversioni sessuali, ardore estetico, patti con Dio e Satana, eroi ossessionati ed eroine tormentate), “i film di Trier ci invitano a visitare un mondo sotterraneo di disperazione, caos e devastazione. Come turisti in questo universo spaventoso e complesso, spesso sentiamo il bisogno di un orientamento e la voluminosa produzione critica su Trier fornisce una varietà di sentieri diversi su cui dirigersi”.
Il volume si pone dunque come una sorta di Virgilio per il pubblico italiano che desidera addentrarsi nella selva oscura creata dal regista, ma che, comprensibilmente, ha anche paura di perdersi. Con pazienza, acutezza e spirito critico, l’autrice scioglie, passo dopo passo, il nodo gordiano della sua filmografia, senza mai cedere all’escamotage del taglio netto, bensì dipanando il filo per tessere una tela in cui tutti i riferimenti (cinematografici, filosofici, iconografici, letterari e musicali) siano ben visibili e collegabili fra loro.
Dato che nessun artista può essere estrapolato dall’ambito in cui è cresciuto (tanto meno Lars, figlio di una nazione e una famiglia, in cui nudità, ateismo e critica sociale non destavano alcuno scalpore), il libro – pur lasciando al lettore la libertà di muoversi come desidera, grazie a un approccio diacronico – si articola in ordine cronologico, strutturandosi in quattro parti. La prima (Il regno) contestualizza la dimensione politica e collettiva della Danimarca, il radicalismo culturale di casa Trier e la formazione del giovane autore, che, non riuscendo a ottenere da Henning Camre, preside della Scuola Nazionale di Cinema, la concessione per girare un adattamento semi-pornografico de La filosofia nel boudoir del Marchese de Sade, deve ripiegare
sui mediometraggi The Orchid Gardener e Menthe – La Bienheureuse. Due lavori che, sulla scia di Josef von Sternberg ed Erich von Stroheim, firma aggiungendo quell’aristocratico “von” che sancisce la differenza sia tra lui e il resto del mondo, sia fra la persona (Lars Trier) e l’artista (Lars von Trier).
La seconda sezione (Europa/Zentropa) affronta il periodo che va dall’esordio cinematografico (L’elemento del crimine, 1984) a quello seriale (The Kingdom, 1994/1997). La terza (Internazionale) è dedicata al manifesto Dogma 95 (stilato insieme a Thomas Vinterberg) e alla “Trilogia del cuore d’oro” (ovvero Le onde del destino, 1996, Idioti, 1998, e Dancer in the Dark, 2000). La quarta (L’animale sociale) copre il lustro che separa Dogville (2003) da Il grande capo (2006). Mentre la quinta (il cui titolo, La luce oscura, rimanda a
quello del volume) rappresenta il viaggio nell’abisso vontrieriano, con il trittico composto da Antichrist (2009), Melancholia (2011) e Nymphomaniac (2013/2014) – opere che, più che comporre una trilogia sulla depressione, “indagano lo scacco insito nella coppia e nel matrimonio, l’inadeguatezza della relazione esclusiva” – e con La casa di Jack (2018). La sesta e ultima parte (Exodus) include sia la terza stagione
di The Kingdom, sia la vivace conversazione fra l’autrice e von Trier, avvenuta la scorsa estate a Lyngby nella casa del regista, non ancora trasferito in un centro di cura per il Parkinson.
Se, da ragazzo, Lars (desideroso di rinnovarsi a ogni opera, secondo l’esempio dei suoi idoli David Bowie, Carl Theodor Dreyer e Stanley Kubrick) accusava i propri connazionali di mancare di pensieri ampi e di “temere il miracolo”, oggi si reputa fortunato perché “pochissimi registi hanno potuto sempre fare i film esattamente come desideravano. Certo, ho anche lavorato tanto. Fare cinema è una lotta, ma è la scelta che ho fatto perché ho sempre voluto fare il regista”.
E, nella sua lotta cinematografica per l’assoluta libertà espressiva, non ha mai fatto prigionieri.
Angela Bosetto ©La Rivista del Cinematografo luglio 2025