
Anni Novanta. Esterno giorno. La macchina da presa, a mezza figura, inquadra cinque corpi. Cinque uomini sono radunati sul balconcino. Sembrano allegri, coscienti non del tutto.
Nel mucchio, c’è Popi così come gli amici chiamano Paolo Sorrentino. Il cineasta, lo sceneggiatore, lo scrittore, il regista premio Oscar 2014 per il lungometrggio La grande bellezza.
Indossa una t-shirt e ancora non sa nulla del suo destino di passerelle, riconoscimenti, spot pubblicitari, serie tv, copioni, festival internazionali, galà. Eppure lo sogna e lo desidera. E tenta, con la complicità di amici fidati – il primo esperimento nel 1994. Una commedia surreal-gastronomica intitolata Dragoncelli di fuoco (di cui esistono pochissime, e preziosissime, copie in vhs. Peraltro la sceneggiatura di Dragoncelli vincerà il premio Solinas tre anni più tardi).
Da qui inizia e si anima il libro dell’udinese Stefano Loparco, il quasi omonimo Dragoncelli di fuoco. Il primo (non) film di Paolo Sorrentino.
Un progetto che l’editore Bietti ha da poco pubblicato per la collana Fotogrammi e che non è possibile acquistare in libreria bensì esclusivamente online attraverso il sito della casa editrice oppure tramite Amazon. La copia fisica costa 4,99 euro, quella digitale 1,99.
Pagina dopo pagina, miracolosamente, si intravede e riemerge un’abbondanza di idee e intuizioni care a Sorrentino, appuntate alla luce della sua lampada Churchill.
Anzitutto gli incipit di due film cult: Il divo e L’amico di famiglia. Sulla storia di Giulio Andreotti, interpretata da Toni Servillo, c’è un promemoria rigoroso: “Stragi e complotti portano la firma di Craxi e Andreotti”. Uno statement che il regista ventenne annotò durante una passeggiata in compagnia degli amici, e che torna puntualmente nel film quando Servillo-Andreotti cammina in solitaria all’alba. Scortato. Pure sullo strozzino incarnato da Giacomo Rizzo il 50enne regista aveva pianificato ogni azione già vista in gioventù: “Si fa chiamare Cuoredoro ma in paese lo sanno tutti: Geremia de’ Geremei è un mostro”.
Tra la pizzeria Gorizia, le aule dei salesiani (altra sorgente inesorabile per The Young Pope/The New Pope), la voglia di formare una band musicale (“In questa casa stanno per nascere i nuovi Talking Heads”) e i poster di Michelle Pfeiffer in cameretta, evocando Céline e Nietzsche, Loparco un romanzo biografico in cui i dialoghi, semmai come avviene al cinema, sono rielaborati. I fatti narrati sono tutti veri. Come lo svenimento di Sorrentino nella discoteca umbra Quasar durante il concerto di David Byrne, l’amato musicista che gli ha ispirato This Must Be the Place. O come il live di Pino Daniele vissuto al San Paolo.
La genesi di tutto è comunque nelle sale del Centro culturale giovanile di via Caldieri 66 al Vomero: è il 1989, Sorrentino si iscrive ai corsi di scrittura cinematografica e televisiva tenuti da Maurizio Fiume – che poi gli procurerà una collaborazione per il film di Enzo Decaro Ladri di futuro; successivamente, in via epistolare, Sorrentino chiese a Massimo Troisi di lavorare con lui – e da lì inizierà il viatico creativo.
A conti fatti, il libro appare come la perfetta anticamera dell’imminente È stata la mano di Dio, il lungometraggio che il cineasta sta completando per Netflix.
Il titolo cita esplicitamente l’estro del campione argentino Diego Maradona – che per il regista è una fonte imprescindibile accanto a Federico Fellini, Martin Scorsese e gli stessi Talking Heads – ma è altrettanto lampante che il dolore familiare – la scomparsa dei genitori avvenuta nell’aprile 1987 ha esercitato sulla sensibilità di Ardo I (ecco lo pseudonimo di Sorrentino in quell’epoca lontana) una naturale eco. Il libro sa riassumere tutto, dilatando le immagini quasi fosse un film.
Gianni Valentino ©la Repubblica gennaio 2021