
«I fiû di gât i ciâpn i póndg»
(I figli dei gatti prendono i topi, ovvero: tale padre, tale figlio)
Detto bolognese
«È forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo,
la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire»
Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte
Bologna, 1938.
«Hai visto come ti guardava quello? Non te ne sei accorta? Me ne sono accorto io…» osserva il professor Michele Casali, parlando con la figlia. In realtà il ragazzo appena incrociato non l’ha degnata di un solo sguardo, lei lo sa, ma il padre cerca in ogni modo di fare prendere fiducia e sicurezza a Giovanna, diciassettenne bruttina, impacciata, insicura e disturbata. L’uomo insegna Arte e disegno al Liceo Galvani di Bologna, dove studia la figlia. Lei, presa da un raptus di gelosia, ucciderà la sua unica amica, colpevole di essere amata e ricambiata proprio dal suo oggetto d’amore. Finirà in manicomio, devastando la vita e l’equilibrio già precario della famiglia in tempo di fascismo e guerra.
Giovanna dimostra, nell’aspetto, nel comportamento e nel pensiero, molti meno anni della sua età (curioso che Alba Rohrwacher abbia dichiarato dieci anni di meno all’epoca del casting, come raccontato da Avati nell’autobiografia La grande invenzione).
Il papà di Giovanna è uno dei film più potenti e struggenti nella produzione recente dell’autore emiliano, un’opera in cui si intrecciano il “male oscuro” che s’impossessa del corpo etereo di Giovanna, l’affetto fuori misura del padre e la Bologna – per estensione, l’Italia – dell’epoca fascista, luogo piccolo-borghese privo di pietas in cui le categorie valoriali sono schiacciate e sfregiate in nome di un presunto, confuso e irrisolto “bene comune”. Un’umanità, salvo eccezioni, con pochissima umanità. Livida come la fotografia di Pasquale Rachini color seppia e decolorata, intrisa di indifferenza e cattiveria, d’incapacità di “vedere”, ascoltare, dunque pre-vedere gli altri e il male degli altri. Vengono ignorati soprattutto gli emarginati con pulsioni omicide come Giovanna e gli uomini “piccoli” e miti, all’apparenza senza qualità, come Michele, padre attento e iperprotettivo (un “tipo” che potremmo rintracciare al centro di tanta altra filmografia avatiana).
Non è certo un caso che il film sia segnato dall’assenza-presenza del pittore Giorgio Morandi, ex compagno di studi di Casali all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Come le nature morte di uno dei più grandi pittori del Novecento, il “quadro” di Avati sembra infatti imbevuto di assenza e al contempo presenza di “vita”. Pare davvero mettere a fuoco «ciò che non si vede» (Casali esplicita il tema in una delle sue lettere al pittore con la dedica: «Da uno che sa dipingere ciò che si vede a uno che sa dipingere ciò che non si vede»).
Bastano gli sguardi dei personaggi o minuscoli dettagli (come le piccole gocce di sangue) sullo sfondo, per farci capire cosa accade o cosa, probabilmente, accadrà: il tradimento della moglie di Michele, Delia, con il vicino di casa poliziotto lo intuiamo al primo sguardo tra i due, in una delle primissime scene; l’omicidio per mano di Giovanna lo capiamo quasi subito insieme alle tracce ritrovate dal padre, che cerca ostinatamente di convincersi del contrario mentre noi spettatori, almeno al principio, ci auguriamo abbia ragione e possa esistere davvero un’altra verità. Avati non cerca mai di sorprenderci attraverso il disvelamento progressivo della storia e del suo intreccio complesso di trame e sottotrame. Riesce piuttosto a spiazzarci proprio nel modo in cui mette in scena il racconto sul piano visivo, evocativo, percettivo. In una parola, “cinematografico”. Non insegue alcuna sorpresa o shock. Realizza, piuttosto, l’inquadratura nitida e precisa di un tempo passato, di vite recise, di un’epoca che è solo apparentemente distante.
Ha osservato Gianni Canova1: «Il papà di Giovanna tenta di rendere visibili i sentimenti, di portarli a galla, di farli lavorare sull’emozionalità del pubblico. Lo fa con la recitazione degli attori […] ma anche con l’interazione che riesce a creare fra attori e intreccio, fra intreccio e scena, fra scena e Storia…». Avati dimostra di essere tra i pochi autori italiani contemporanei in grado di mettere a fuoco al contempo la realtà e l’allucinazione. Nega allo spettatore la scena dell’assassinio, eppure capiamo immediatamente cosa è successo; non vediamo mai consumare l’adulterio tra Sergio Ghia e la moglie di Casali, basta uno scambio di occhiate. Merito del regista e degli attori di cui si avvale, capaci di tradurre ogni moto dell’anima in un movimento degli occhi o delle mani, in un piccolo scatto nervoso.
L’autore riesce a immergerci in un’Italia “altra”, un’Italia del passato, che è genitrice di quella contemporanea. Non vi è nessun distacco perché, da subito, gli elementi mélo e sentimentali non possono lasciare indifferenti alla storia (e alla Storia).
Film di contrasti cromatici, affettivi ed emotivi. Alla freddezza della madre si contrappone l’amore eccessivo del padre. Alla bellezza algida della prima si contrappongono la scarsa avvenenza della figlia e la tragedia da uomo ridicolo del secondo. Infine, all’umanità di Michele e di pochi altri si contrappongono il livore e l’indifferenza della maggior parte dei bolognesi.
In una delle ultime sequenze, dal notevole potere simbolico, l’ex poliziotto fascista, poi repubblichino, Sergio Ghia, viene condannato da un tribunale sommario alla fucilazione. Delia, tra i presenti, finge di non riconoscerlo, benché in quel momento si trovi dalla “parte giusta”. Ghia tenta di rinnegare la propria ideologia, ma viene legato a una sedia e fucilato. Solo ferito, riesce a liberarsi. Dopo la fuga muore dissanguato su un tram. «Non possiamo lasciarlo così», osserva un passeggero. «Meglio coprirlo», dice qualcun altro. È con una pagina di giornale che gli si copre il viso. Il tram e l’Italia riprendono la propria corsa, la brutalità di ogni colore resta sotto una coperta sottile, quasi trasparente, che nessuno vuole più vedere. I crimini politici si possono dimenticare, quelli di cronaca no, dunque Casali rimane per sempre «il padre della pazza assassina», l’appestato, «quello là», guardato con disprezzo, senza alcuna compassione.
In una Bologna scura e (ex?) fascista in cui tutti giudicano, la voce dominante è quella della chiacchiera o del pensiero unico che si fa Verità.
Osservava Antonin Artaud nella lettera a Pablo Picasso del 27 febbraio 1946: «Di tutta la tela è questo riquadro di viso senza bocca che da principio si vede e ci vuole un certo tempo per accorgersi che questa stessa testa ha una faccia più bassa, quella di un’altra donna, la stessa ma voltata dall’altra parte […] Come un punto interrogativo a due sensi…». L’opera di Avati ci costringe ancora una volta a non fermarci alla superficie della storia, ma a restare destabilizzati proprio da un punto interrogativo – affascinante, suadente e perturbante – a due sensi.
Note
1 Canova Gianni, Cinemania. 10 anni 100 film: il cinema italiano del nuovo millennio, Marsilio, Venezia 2010, p. 255.
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Pupi Avati; sceneggiatura: Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giuliano Pannuti; costumi: Mario Carlini; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Silvio Orlando (Michele Casali), Alba Rohrwacher (Giovanna Casali), Francesca Neri (Delia Casali), Ezio Greggio (Sergio Ghia), Serena Grandi (Lella Ghia); produzione: DueA Film, Medusa Film; origine: Italia, 2008; durata: 105’; home video: Blu-ray inedito, dvd Medusa; colonna sonora: inedita.