"Festa di laurea". Non spegnete quelle luci, non spegnetele mai...
Enrico Giacovelli
Accingendomi a rivedere dopo tanto tempo Festa di laurea (1985), ho pensato subito alle sue luci colorate, «tipo quelle delle fiere», che in tutti questi anni non si sono mai spente nella mia memoria. All’inizio Carlo Delle Piane, seduto con il figlio in riva al mare in un giorno d’estate del 1950, ne ricorda uno di dieci anni prima, quando la ragazza che sarà poi Aurore Clément gli chiese di aiutarla ad allestire la festa di laurea nella villa di famiglia a Rimini. «Ci mandò dappertutto a cercar delle luci, delle lampadine, delle candele, delle luminarie, e le accendemmo in tutta la campagna… Ovunque… E quando lei uscì e vide tutte quelle luci, fu contenta come mai l’avevo vista prima. “Non spegnetele mai”, ci disse, “mai”…».
Quella richiesta accorata che è quasi una preghiera mi fa venire in mente il «Vorrei che questo ballo non finisse mai» di Claudia Cardinale (Il Gattopardo [1963]) e il «Questa festa non deve finire più» di Mastroianni (La dolce vita [1960]). Balli, feste, piccole follie di quando si è giovani e ci si crede eterni. Che cosa accade quando le feste finiscono lo si vede nel primo film visceralmente avatiano di Avati, Le strelle nel fosso (1978), girato nello stesso casolare sull’argine che ritroviamo in alcune scene di Festa di laurea: si spengono le luci, arriva la morte. O la vita, che è poi lo stesso. Intanto altre luci magiche in un giardino di guerra erano apparse in Aiutami a sognare (1981), quando Mariangela Melato le vedeva accendersi con gli occhi della memoria, tra compagni e canzoni, nel parco di una villa simile a quella di Festa di laurea.
Basterebbero queste affinità di location a suggerire una centralità di Festa di laurea nella filmografia del regista, con tutto che lui dichiarò di considerarlo un film minore. Molti classici del cinema sono costruiti sulle malefeste che “a schifio finiscono”: da Pranzo alle otto di Cukor (1933) a L’invito di Goretta (1972), da Un matrimonio di Altman (1978) a Hollywood Party di Edwards (1968). Ma qui la malafesta, come in certe commedie all’italiana, è anche metafora del Malpaese, e quella laurea ostentata e mai presa è l’Italia promessa e mancata di Munasterio e‘ Santa Chiara – la canzone che già nel 1945 ricordava «Ca s’è fatto malamente/ ‘Stu paese, ma pecché?» – o di film come Il padre di famiglia di Loy (1967) e C’eravamo tanto amati di Scola (1974). In questo senso Festa di laurea rappresenta la punta più politica del cinema di Avati, e il suo pensiero sui facili e democristiani anni Cinquanta lo esprime la villeggiante abusiva che con la famiglia ha “occupato” la villa dei ricchi, ex fascisti, ex guerrafondai: «Ma allora questa guerra per cosa l’abbiamo combattuta a fare? Perché ritornino i padroni?». Inutile dire che la villa in rovina, rimessa in sesto dai poveri a proprie spese, a beneficio dei ricchi e delle loro porcherie e ipocrisie, è chiaramente l’Italia. L’Italia di Mussolini, di Andreotti, di Berlusconi, di Renzi.
Tuttavia, poiché le metafore toccano il cervello ma non il cuore, il tema politico resta in ombra quando si accendono le luci della memoria, le luminarie false e consolatrici che fanno sembrare bello anche ciò che non lo è. Qui Avati si ritrova nel suo elemento naturale, quello della memoria ri-creatrice. In Una gita scolastica (1983) la domanda era: che fine fanno i ricordi quando nessuno più li ricorda? E la risposta si perdeva nella nebbia del tempo, dissolvenza incrociata con il Nulla, in quella processione finale di morti da Settimo sigillo (1957) – la vera morte, irreparabile, è la morte dei ricordi. In Festa di laurea la domanda suona piuttosto: è giusto restare legati ai ricordi quando ci accorgiamo che siamo stati noi a rimodellarli a nostro piacimento? Anche qui il punto è la complicità tra illusione e ricordo, quella complicità che alla fine fa accendere nonostante tutto le luci al protagonista umiliato, calpestato, perché non c’è altro modo per salvarsi dal buio.
Cresciuti sgranocchiando le madeleines involontarie di Proust, quasi ci imbarazza la persistenza di questa memoria volontaria, così ostinata da resistere e ingigantirsi pur nell’evidenza della propria falsità. Per il protagonista di Festa di laurea la memoria è vita, anche quando diventa illusione, così come per la protagonista di Una gita scolastica era vita l’illusione, anche quando diventava memoria. La forza dei ricordi è trascinante, decisiva, poco importa che siano falsi (su questa ambiguità Fellini ha costruito l’intero suo cinema). E che il vero tema di Festa di laurea sia la memoria, lo conferma la battuta iniziale di Aurore Clément a Delle Piane. «Credevo si fosse dimenticato», gli dice per prima cosa, ed è come chiedere a Dracula: «La bistecca la preferisce al sangue?». Ostinarsi nel ricordo significa restare innamorati degli attimi («Solo un momento dura l’incanto», cantavano i ragazzi di Una gita scolastica), perché è la fine delle cose che davvero ci terrorizza, come preconizzava Jean-Pierre Lèaud in Aiutami a sognare: «Vorrei che non finisse più… Ho paura di quando tutto sarà finito». Era il suo modo di dire: «Non spegnete mai quelle luci».
Ci sono due categorie di personaggi nei film di Avati: quelli che non ricordano (i veri perdenti) e quelli che ricordano (i vincenti loro malgrado). Da un lato Impiegati (1985), che ci racconta lo squallore della vita quando le luci si spengono e l’incanto finisce («Quali sono le cose che contano?», «Non ci sono»); o il protagonista di Regalo di Natale (1986) che nemmeno riconosce la donna un tempo amata, avendo perso sia la memoria che l’illusione. Dall’altro gli umili felici, o quasi, che restano abbarbicati ai loro preziosi ricordi falsi come il vecchio aedo di Vecchioni che «si accecò per rimaner nel sogno»: il pasticciere di Festa di laurea, la studentessa e poi anziana signora di Una gita scolastica, così come le voci del passato – ricordi, illusioni – che perforano il tempo alla fine di Noi tre (1984). E il trionfo dell’illusione e della memoria è il cinema, come nel bellissimo finale di Festa di laurea, così vicino a quello di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (che però è di tre anni posteriore).
Rivedendo Festa di laurea dopo molti anni, ho scoperto che le luci colorate della mia memoria (e di una battuta del film) non erano colorate, ma bianche. Però, dentro di me, continuo a vederle colorate. «Poi dovrai vivere la vita com’è», si cantava in Una gita scolastica, ma è legittimo rifiutarsi di farlo e non tradire mai il ricordo, l’illusione, il momento. Il testimone dello sposo (1997), il titolo di Avati più vicino a Festa di laurea, che racconta anch’esso il fallimento di una festa, si chiude all’alba del Novecento con un «Riusciremo ad andare tutti sulla luna?».
Ci siamo poi andati? Qualcuno sì (non parlo di grigi astronauti). E ci è rimasto. E ci saluta da lassù tra mille luci colorate che non si spengono, che non si spegneranno mai.
CAST & CREDITS
Regia: Pupi Avati; soggetto: Antonio Avati, Pupi Avati; sceneggiatura: Antonio Avati, Pupi Avati; fotografia: Pasquale Rachini; scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa; costumi: Alberto Spiazzi; montaggio: Amedeo Salfa; musiche: Riz Ortolani; interpreti: Carlo Delle Piane (Vanni Porelli), Aurore Clément (Gaia Franchi), Lidia Broccolino (Sandra), Nik Novecento (Nicola Porelli), Dario Parisini (Dario), Davide Celli (Davide); produzione: Antonio Avati e Luciano Martino per DueA Film, Dania Film, Filmes International, National Cinematografica; origine: Italia, 1985; durata: 94’; home video: Blu-ray inedito, dvd Quinto Piano; colonna sonora: Triple Time Music (compilation Le colonne sonore originali di Riz Ortolani per Pupi Avati).