Benvenuti ad Avatiland! Tracce trasversali di cinema di genere
Donato Dallavalle
«Io credo che i generi abbiano delle loro regole da rispettare,
ma, nello stesso tempo, quelle regole devono essere personalizzate».
Rivedendo i più di 50, diversissimi, strani, talvolta anche sconclusionati film di Pupi Avati, ci si trova di fronte a un’impressione lampante: sono opere di un narratore autentico. Uno scrittore per immagini che cura con amore lo sviluppo narrativo spesso più di quello visuale, cercando di mischiare più generi e livelli per comunicare le proprie emozioni, le proprie vulnerabilità e creare un’empatia sincera con il singolo lettore/spettatore.
È un cinema cangiante e vulnerabile, quello di Avati, perché vibrante e poetico, non per forza legato a un messaggio, che attrae e coinvolge come farebbe un diario scritto a mano, imperfetto ma sincero, fatto di frammenti di memoria, di cantilene recitate di fronte al focolare, di illusioni giovanili e purezza perduta, di tradimenti tra amici e scherzi da bar. Un diario che ammette con candore la profonda ammirazione e la difficoltà di penetrare due grandi misteri: quello femminile di madri, zie zitelle e ragazze pronte all’amore e quello, che sia buffo o tragico, della Signora Morte.
«Sono fuggito da Bologna dopo due disastri cinematografici (Balsamus. L’uomo di satana [1968] e Thomas… gli indemoniati [1969], nda), due film molto sessantottini, di una supponenza assoluta, con i quali avevo fatto perdere 268 milioni al mio finanziatore. A Bologna ero diventato una sorta di macchietta, mi chiamavano “Il regista” (…), e quando sono arrivato a Roma sono stato disoccupato per quattro anni. Nessuno mi voleva e io dovevo badare a mia moglie, due figli piccoli, il telefono tagliato, tutto al monte di pietà. Una vita molto complicata». La via crucis tra i produttori del giovane Giuseppe-detto-Pupi si interrompe un giorno, in un campo da tennis di Torvajanica, con un equivoco degno di uno slapstick americano. Ugo Tognazzi prende per errore il copione di La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975) dimenticato da Paolo Villaggio, prima scelta di Avati. Lo legge e, da Parigi, contatta il giovane regista disoccupato: vuole fare il film!
Con un incipit così, la carriera di Avati non poteva che continuare all’insegna della sorpresa, della stranezza, della magia. La mazurka è infatti qualcosa di poco classificabile: non è soltanto una farsa grottesca girata in modo del tutto atipico, non è soltanto un film d’attore, nonostante la performance dilagante di Tognazzi, perché centrale è l’importanza riservata a comprimari (i consueti e familiari Gianni Cavina, Bob Tonelli, Giulio Pizzirani) che hanno i volti bitorzoluti, ottusi e le pupille assenti dei personaggi di un quadro di Henri Rousseau il Doganiere. Nel film si sente il sorriso sornione di un regista ancora naïf, che gioca con il proprio futuro mettendo sulla bilancia il comico con l’inquietudine, tentando di coniare una cifra personalissima che già si intuiva nei deliranti esordi bolognesi. Il tiepido successo del film, definito erroneamente “felliniano” da molti dei critici dell’epoca, dà però una grande opportunità al regista: poter pensare al titolo successivo, Bordella (1976).
Cosa potrebbe nascondere un titolo del genere? Una commedia scabrosa? Un bizzarro film erotico? Una farsa politicamente scorretta? Bordella è senza dubbio una delle creature più curiose del cinema italiano, minata dalle furiose incomprensioni tra il regista e il villain americano Al Lettieri e dall’accoglienza scandalizzata dell’Italia democristiana del 1976, anno nel quale titoli ben più “indecenti” come Mandingo di Richard Fleischer (1975) e Salon Kitty di Tinto Brass (1976) sono tra i primi 20 incassi della stagione.
In realtà, il primo giorno nelle sale il film fa il tutto esaurito, ma viene subito sequestrato per oscenità dal pretore di Latina e condannato all’invisibilità. Bordella, soprattutto oggi, non ha nulla di osceno se non i mutandoni di un giovanissimo Christian De Sica. Gioca con un tema pruriginoso, certo, ma lo fa tessendo una partitura anarchica e rocambolesca fatta di western, fotoromanzo e cartoon come ben si comprende nella scena in cui Adone Tonti tenta di impiccarsi con una corda fatta di preservativi, pazientemente legati tra loro, gridando: «È finita! Portate via i bambini dal cinema!». Un film così sarcastico e selvaggio finisce per diventare, non del tutto consapevolmente, uno dei primissimi esempi di cinema demenziale.
«3…2…1… e tutti urlavano! Quando uscì La casa dalle finestre che ridono andavo nelle sale cinematografiche, mi sedevo in fondo e meditavo su quello che avevo fatto e sui meccanismi del terrore. Bisogna imparare a fare paura, a fare ridere e commuovere; credo che i generi abbiano regole da rispettare e, allo stesso tempo, da personalizzare».
Quale tipo di creatura cinematografica è Pupi Avati? Cosa sono i suoi film? Gemme strane, allegre e oscure, spesso inclassificabili. La casa dalle finestre che ridono è uno dei suoi titoli più celebri e riusciti, il primo a immergersi profondamente nelle paurose storie ascoltate da bambino, nel folklore primitivo della propria terra, piatta e senza nascondigli; la pianura, con il suo cielo senza nuvole, la cui luce accecante non riesce a cancellare le ombre gravide di presentimenti. Bastano gli agghiaccianti titoli di testa per capire che siamo di fronte a un’opera del tutto nuova. Il ragazzo legato come San Sebastiano – con un viso scuro, contadino come una statua di Donatello – è colto nel momento dell’agonia mentre una voce mostruosa parla di morte, colori e purificazione: la sintesi della pittura del maledetto Buono Legnani. Che sia la sintesi del film stesso? «I colori escono dalle mie tele, ecco la purezza, i miei colori…», sussurra come posseduto Legnani, e anche il cinema possiede Avati con la stessa ossessiva passione. Facce di vecchie dipinte – e reali – che gridano, tonache slacciate in segreto, coltelli dalla lama (troppo) retrattile che entrano – o non entrano? – allegramente nelle carni vive dei protagonisti. Avati gira per terrorizzare ma lo fa con la dolcezza di un mondo dove la morte e l’amore sono naturali e cicliche come le stagioni del raccolto. Una volta per tutte, non ci sono echi para-felliniani, nessun debito con Dario Argento a cavallo della metamorfosi tra Profondo rosso (1975) e Suspiria (1977). Niente è simile alle terrorizzanti bocche sorridenti dipinte sulla casa di Buono Legnani, perché l’orrore, l’abominevole e l’eccesso nascono esclusivamente da Avati e dal suo mondo che diventa motore di una nuova indipendenza: La casa è il primo film prodotto dalla A.M.A. Film di Pupi con il fratello Antonio e Gianni Minervini e, insieme, uno dei tasselli più importanti per la costruzione di uno stile personalissimo al quale l’autore tornerà ad attingere sia nei film espressamente di genere (anche soltanto scritti e prodotti, come lo splendido Dove comincia la notte di Maurizio Zacccaro [1991]) sia in quelli, apparentemente, più luminosi e distanti.
«Il genere gotico lo puoi fare benissimo, non è disdicevole, a patto che lo contestualizzi in un modo nuovo e personale, così che assomigli a ciò che avevi fatto prima e al film che farai dopo. Il genere è la gioia che ti riporta a quando eri bambino. Non c’è niente di più gioioso che stare sul set di un film di paura. Ci sono sangue, coltellate, ridono tutti. Non so come, ma si crea una sorta di misteriosa euforia».
Dopo La casa, che ha un discreto successo e vince il premio maggiore al Festival del Cinema Fantastico di Parigi, Pupi non ha nessuna intenzione di ripetersi e costruisce il suo esatto opposto: Tutti defunti… tranne i morti (1977) è una deliziosa farsa horror che mischia le nebbie padane a echi dei film della Hammer e dei meccanismi whodunit alla Agatha Christie, allegramente strapazzati. Il tutto è visto e stravolto dalla cifra naïf e rocambolesca dell’Avati del periodo, che sembra girare all’insegna di un entusiastico “Adesso vi stupisco io!”.
Nel successivo Le strelle nel fosso (1974) la favola sommerge ogni cosa come la piena di un fiume, si eleva da semplice filastrocca a chiave esistenziale di una storia di educazione alla vita – e di preparazione alla morte – che per il gruppo di uomini-bambini che vivono da eremiti tra gli acquitrini del delta del Po (fotografati da Franco Delli Colli con la stessa luce di Tiepolo), può voler dire soltanto entrare a far parte di quelle leggende da raccontarsi per sempre di fronte al fuoco.
Nello stesso periodo, mentre l’Italia è sconvolta dalla gelida morsa del terrorismo e le favole sembrano troppo oscure, Avati cambia i toni ed esordisce in tv con Jazz Band e Cinema!!!, miniserie nate da ricordi giovanili di una Bologna spensierata e luminosa che preludono alla parte più mainstrem del suo cinema. Aiutami a sognare, il titolo successivo, segue questo solco romantico-nostalgico, sempre con qualche accento di oscuro folklore, e frutta alla protagonista Mariangela Melato – che aveva esordito proprio con Pupi in Thomas… gli indemoniati – un meritato David di Donatello. La critica comincia ad accorgersi di Avati e del suo mondo. Un mondo che è come un vecchio giradischi in loop, un diario scritto a mano variegato ma sempre coerente, un territorio da raccontare fatto di vapori di cucina, grida di cortile, abbracci perduti e cantilene inquietanti che finiscono per amalgamarsi in un genere a parte, un territorio di nome Avatiland che culmina con il grande successo di Una gita scolastica (1983).
La morbida carezza della fotografia di Pasquale Rachini, lo smagliante commento di Riz Ortolani – che sostituisce il mood più indie e inquietante di Amedeo Tommasi –, la rustica cadenza del dialetto bolognese stampata sui volti mai perfetti né induriti dalla tecnica di attori spesso presi dalla strada (pensiamo all’ex benzinaio Nik Novecento, morto giovanissimo), diventano fattori determinanti del successo insperato di questa poesia elegiaca, apparentemente così distante dai fluorescenti anni Ottanta.
Con Una gita scolastica e i numerosi film successivi l’Avati narratore sigla il patto più duraturo ed esclusivo con il suo lettore/spettatore e sarà difficile ottenere gli stessi successi quando, come aveva sempre fatto, sentirà il bisogno di svoltare verso strade più accidentate.
«Io credo di aver frequentato tutti i generi cinematografici e credo che non mi abbia fatto male. In Italia questo vuol dire fare una specie di rinuncia all’identità autoriale. Ma si può raccontare continuamente casa propria? Mi stupisce che uno non avverta la curiosità di misurarsi con altro». Se in Zeder (1983) la miscela tra horror e detection funziona benissimo, in Dichiarazioni d’amore (1994) il lirismo dei flashback nella Bologna anni Trenta, fulcro della storia, non si sposa in modo davvero convincente con le tinte quasi noir del presente. In Impiegati (1985) la confezione raggelata fa da contraltare quasi horror al primo film capace di mettere alla berlina il coevo mondo degli yuppies, mentre il picaresco innervato di gotico di I cavalieri che fecero l’impresa (2001), apprezzabile tentativo di realizzare un kolossal medioevale italiano, non regge il confronto con il piccolo e stupefacente L’arcano incantatore (1996), dove il gotico si mostra spudoratamente puro nella sua accezione più folkloristica e insieme intellettuale. Il nascondiglio (2007), infine, gioca con l’ossessione agorafobica di Dove comincia la notte, collocata nuovamente negli Stati Uniti.
La commistione di generi, invece, dà vigore a pellicole festivaliere come Una sconfinata giovinezza (2010) e Il papà di Giovanna (2008). Sono film diversi, ma entrambi incentrati sul disagio di una malattia – l’Alzheimer nel primo e la follia nell’altro – e intessuti di un commovente equilibrio tra atmosfera e sentimento, nel quale l’interpretazione di attori del calibro di Fabrizio Bentivoglio, Alba Rohrwacher e Silvio Orlando si fonde perfettamente con le performance di comprimari inaspettati (Ezio Greggio e Serena Grandi stranamente efficaci come coppia drammatica in Il papà di Giovanna), confermando il fiuto di Avati per gli outsider e il suo talento mimetico e manipolativo.
Come ha fatto con i generi più diversi nei suoi film, Pupi riesce a mischiare alto e basso, tv, teatro, cortile e cinema, esaltando in modo inaspettato volti e caratteristiche di attori che erano “altro”. È il caso di Carlo Delle Piane che, dopo trent’anni di commedie e qualche commediaccia, con Una gita scolastica e altri film del regista ha un grande exploit drammatico. E poi Diego Abatantuono, che dopo tanta comicità, con Regalo di Natale (1986) trova una nuova e convincente cifra seria. Neri Marcorè, strappato agli sketch comici in televisione, brilla nel dramma Il cuore altrove (2003), mentre Katia Ricciarelli, con La seconda notte di nozze (2005), battezza una fortunata stagione da attrice drammatica dopo i fasti della lirica. E se Christian De Sica, dopo Bordella, torna a lavorare con Pupi in Il figlio più piccolo (2010) confermando un talento drammatico mai del tutto celato, più interessante, anche se non del tutto persuasivo, è l’esperimento di Festival (1996) nel quale Massimo Boldi si cala con commovente partecipazione nell’unico, finora, ruolo drammatico della sua carriera. Una lunga sequenza di attori ai quali Pupi ha dato il lusso di una nuova opportunità e, non di rado, il ruolo della vita.
Anche in questo Avati è un affabulatore, un libero manipolatore di generi e di emozioni cinematografiche che è sempre rimasto fedele ai valori del suo mondo, Avatiland, e al desiderio di poter creare, come tutti i grandi narratori, un rapporto esclusivo e terribilmente romantico con il singolo lettore/spettatore. Con ognuno di noi.
Nota
Le dichiarazioni di Pupi Avati presenti nel testo sono tratte da una conversazione con Donato Dallavalle avvenuta a Roma nel maggio 2015.