
«Perché non mettiamo su un complesso jazz?» – aveva chiesto agli amici con cui era solito tirare tardi bevendo Campari Soda al Bar Margherita, formidabile terapia all’insicurezza con le ragazze. Sapeva di essere l’unico della combriccola a possedere uno strumento musicale – un saxofono contralto preso in affitto da mamma Ines nel negozio di Vandarini – e ciò gli conferiva la credibilità di chi sa di cosa parla. Così, dissimulando la pulsione abbietta che stava dietro all’operazione – «rimorchiare» – l’aveva messa giù facile: «E poi il jazz s’improvvisa: non serve studiare!».
Non era una posa. Giuseppe detto Pupi, detto Peppino Camparino per via della Soda ingollata – un ex boy scout sedicenne dall’aria paciosa e la marcata timidezza – ci credeva veramente «perché la discriminante della mia vita è sempre stata lo studio: potendolo evitare, lo evitavo. Perciò in quegli anni credevo stupidamente che tutti potessero suonare il jazz. In realtà soffiavo disperatamente dentro l’oncia ma il saxofono si limitava a emettere suoni ignobili, simili a ragli di asino. Comunque, decidemmo di provarci…».
Nasceva così, nella Bologna del 1954, la Criminal Jazz Band.
«Suonavamo dappertutto, sotto i portici, lungo le vie, al secondo piano della casa di via San Vitale, ma eravamo un complesso sgangherato. Ci univa la grande amicizia, le ore trascorse da Gigi Foresti ad ascoltare i mirabolanti VDISC lasciati dalle truppe americane e, cosa non da poco, l’idea di sembrare trasgressivi, con la mente rivolta ai bordelli fumosi di New Orleans, solo immaginati perché irraggiungibili. Fu quello l’elemento dirimente per cui abbandonai l’idea del giornalismo… Vuoi mettere suonare in una jazz band? Vuoi mettere le vite di Benny Goodman e Glenn Miller?». Sì, vuoi mettere. Ma loro – con Duke Ellington, Louis Amstrong, Thelonious Monk e Chat Baker – sono le stelle del jazz e con le vicende di Bologna, c’entrano nulla.
«Presto mi accorsi che con il sax non progredivo come avrei voluto. Fu allora che un vecchio musicista mi consigliò di dedicarmi al clarinetto, più versatile. Così mia madre restituì l’ottone a Vandarini e divenni un clarinettista. Quando nel 1954 al teatro Antoniano di Bologna ascoltai per la prima volta Henghel Gualdi e il suo quintetto – un’interpretazione straordinaria, un’emozione violentissima – mi convinsi a fare le cose sul serio».
Da lì prove su prove, concerti su concerti, piccole gioie e mille accidenti fino alla chiamata nella Magistratus Jazz Band (divenuta poi Rheno Dixiland Band e, dal 1972, Doctor Dixie Jazz Band), l’ensemble jazzistico più in vista di Bologna – un settetto di fiati, piano e batteria – e la vittoria di Juan-les-Pins al Festival Europeo del Jazz del 1960. «Ero finalmente diventato ciò che sognavo di essere: uno jazzman. Suonavo uno scintillante clarinetto Selmer in mi bemolle – il migliore che abbia posseduto in carriera – con le ragazze facevo un po’ meno fatica e quando passeggiavo per Bologna mi atteggiavo un po’. Insomma, ero un uomo felice. Ma l’arrivo di Lucio ha mandato tutto a carte quarantotto…».
Lucio
Piccoletto, di età e di statura, clarinettista autodidatta dall’età di dieci anni, a soli quattordici Lucio Dalla – orfano di padre dal 1950, come Pupi, e con un curriculum studiorum mandato presto in malora – era stato cooptato dalla Rheno Jazz Band in qualità di secondo clarinetto. Da subito Pupi – di cinque anni più grande – aveva abbozzato, guardandolo in cagnesco. Perché Dalla era bravo, maledettamente bravo, e concerto dopo concerto cresceva mentre Pupi, vinto da un complesso d’inferiorità, faticava a tenere il passo: «Lucio aveva un talento innato, una predisposizione unica allo strumento e alla musica. Con il tempo, quando ormai ero un regista affermato, siamo diventati grandi amici, ma in quegli anni la sua presenza aveva finito per frustrarmi. Mi ero addirittura convinto che, prima o poi, sarei stato cacciato dalla band. Sì, la rivalità tra noi c’era, anche se Lucio l’ha sempre minimizzata. Ma come avrei potuto contrastarlo? Ero decisamente meno dotato di lui e più ligio al pentagramma mentre Lucio al clarinetto debordava, diventava incontinente. Solo dopo ho capito che era il suo modo di stare al mondo. Lucio aveva paura del vuoto, sentiva la necessità di riempire, fare cose, vivere nuove esperienze. Chissà? Forse intuiva che la vita non gli avrebbe concesso molto tempo…».
Gli anni migliori di Pupi musicista vanno dal 1962 al 1964, un intervallo di tempo entro cui la tecnica del futuro regista sembrava essere tornata ai livelli del suo esordio con la Rheno Jazz Band. Non per caso. Nel 1962, deciso a intraprendere la strada cantautorale, Dalla aveva lasciato Bologna e la band restituendo, ipso facto, il monopolio esclusivo del clarinetto a Pupi. «Quando Lucio c’informò dell’abbandono per iniziare la collaborazione con Gino Paoli, intimamente ho gioito. Senza di lui, credo di aver dato il meglio. Ma era troppo tardi. La sua vicinanza mi aveva fatto capire che il talento è un dono. E io non l’avevo ricevuto. Non quello. Così decisi di appendere il clarinetto al chiodo. Non prima di aver salutato la città e gli amici con un’esibizione pubblica. L’ultima». Con lo spettacolo di addio al Teatro Duse di Bologna nel 1965 – intitolato Ma è poi esistito Louis Procope?, dal nome di un jazzista qualunque e in onore di tutti i signori nessuno del jazz – si chiude la stagione di Avati al clarinetto. Lasciando il teatro a bordo della Giulia metallizzata («Aziendale») alla fine dell’evento («Fu la mia prima regia»), per i più si era conclusa la parabola pubblica del figlio di Ines – che nel frattempo si era impiegato alla Findus surgelati – risucchiato nell’anonimato come Procope.
Sbagliavano. Tre anni dopo il nome di Avati tornerà alla ribalta nazionale come regista di Balsamus. L’uomo di Satana (1968). Perché a forza di vendere surgelati Pupi una cosa l’aveva capita: se non aveva potuto diventare il migliore dei clarinettisti, non si sarebbe prestato a essere il più infelice degli uomini. E si era licenziato.
Cinema in jazz
Il soggetto di Jazz Band (1978) sta tutto lì, nelle vicende autobiografiche che hanno visto per protagonista Pupi e i suoi amici nell’Italia degli anni Cinquanta. Trasmesso in tre puntate sulla Rete 1 dal 31 aprile al 14 maggio 1978, lo sceneggiato – scritto da Pupi, suo fratello Antonio, Maurizio Costanzo e Gianni Cavina – ricostruisce la storia della Criminal Jazz Band – l’improvvisata orchestrina messa in piedi da Giuseppe, Giuliano, Carlo e Vittorio – culminata con la sfida alla più blasonata Magistratus per strappargli il diritto di partecipare a Roma alla Coppa del Jazz. Dopo Balsamus. L’uomo di Satana, Thomas… gli indemoniati (1969), La casa dalle finestre che ridono (1976), Bordella (1976) e Tutti defunti… tranne i morti (1977), dopo una filmografia le cui storie rimandano a una provincia separata, fabulistica e mitopoietica, nel decennale del suo esordio registico Pupi torna alla Bologna della sua giovinezza e ricostruisce meticolosamente i tratti antropologici dei suoi diciott’anni, affidando le musiche dello sceneggiato agli amici di un tempo – tra cui i ginecologi Gherardo Gasaglia (batteria) e Nardo Giardina (tromba), l’assicuratore Cecco Coniglio (trombone) – mentre le sigle vengono realizzate da quell’Henghel Gualdi la cui interpretazione al Teatro Antoniano di Bologna lo aveva letteralmente stregato. È un Avati realista quello che si presenta al pubblico con Jazz Band, sismografo dei sentimenti e delle piccole cose la cui cifra (quella «tenerezza» di cui più volte ha parlato il regista) formerà il reticolo poetico della filmografia a venire. E forse non è un caso che proprio l’amore per il jazz abbia attivato uno sguardo partecipante e pacificato, come a dire che con il jazz – che per Pupi è amicizia, famiglia, memoria condivisa – non si scherza.
Anche grazie alla prolifica collaborazione con Riz Ortolani e Gualdi, dal 1978 in poi il jazz («Dallo standard al bebop, solare e ballabile») è ovunque. In Aiutami a sognare (1981) il regista allarga il perimetro d’osservazione oltreoceano e in una Bologna bellica intreccia la storia d’amore tra Francesca, vedova e madre di tre figli, e Ray, pilota statunitense amante del jazz e del cinema. Molti gli accenti autobiografici per un film integro e minimalista, a metà strada tra la commedia e il musical, Jazz Band e Una gita scolastica (1983). Un tributo al mito americano visto dall’Italia, mentre Radio Londra trasmette le musiche di George Gershwin e Glenn Miller.
Il 1984 è la volta del film musicale (sebbene non jazzistico) Noi tre, il cui protagonista è un giovane Mozart («Lucio era Mozart e a me è toccato in sorte Salieri») in visita a Bologna. Avati normalizza il genio, lo ritrae nelle bizzarrie giocose dell’età mentre prende forma il desiderio di normalità di un adolescente soggiogato dalle aspettative della famiglia.
Cinque anni dopo Jazz Band il regista torna nei luoghi e nel tempo della sua iniziazione musicale e con lo sceneggiato Dancing Paradise (1982) – andato in onda in tre puntate su Rete 1 dal 12 al 26 giugno 1982 – costruisce un racconto fantastico tra la commedia e il grottesco dove la ricerca di William del padre detto “Dancing Paradise” – batterista dal passato glorioso di cui si sono perse le tracce – si trasforma in un viaggio nella musica popolare emiliana e nei suoi folli protagonisti a cavallo degli anni Quaranta (anche in questo caso molti siparietti musicali sono opera degli amici di gioventù del regista), con le balere, le orchestre da ballo e i musicisti di swing.
Con Bix. Un’ipotesi leggendaria (1991) – secondo grande affresco avatiano sul mondo del jazz – la vena paesana e malinconica di Jazz Band e Dancing Paradise tocca il tragico. Basata sulla sfortunata vicenda biografica del trombettista bianco Leon Bix Beiderbecke, morto alcolizzato nel 1931 quando aveva solo ventotto anni, la pellicola – girata a Davenport, nello Iowa, nei luoghi in cui era vissuto il musicista, con un cast americano e la collaborazione musicale di Bob Wilber (quello di Cotton Club [1984]) – propone una raffinata monografia per immagini mostrando l’altro lato del mito, le fragilità dell’artista, il senso d’inadeguatezza. Bix rigetta l’emotività, rifiuta lo psicologismo, blandisce l’analisi clinica; insomma, il bolognese non si fa egemonizzare dal cortocircuito esistenziale dell’eroe tragico e la vicenda, pur nel suo triste epilogo, scorre morbida, mai retorica.
Quasi mezzo secolo dopo i fatti della Rheno Jazz Band, Avati indaga pubblicamente (e con grande onestà) il rapporto di odio-amicizia che lo aveva legato a Lucio Dalla e con Ma quando arrivano le ragazze? (2005) allestisce una cosmogonia relazionale che è anche riflessione sul genio creativo e la sua variante meno nobile, la passione («Il talento è un dono. O ce l’hai o non ce l’hai. E se non ce l’hai è solo passione»); quella che constata avere Gianca/Avati dopo l’incontro con Nik/Dalla – entrambi componenti di un quintetto jazz – ed essersene separato a causa dell’amore per una ragazza e l’invidia, mentre l’ormai ex amico s’avvia a una strepitosa carriera di trombettista.
La favola jazz: Le strelle nel fosso
Girato sulle rive del Po dopo il successo di Jazz Band, Le strelle nel fosso (1979) non è un film sul jazz: è cinema jazz. Libero, giocoso, imprevedibile. Del jazz possiede il ritmo (lunghe pause e improvvise accelerazioni), il giro armonico (la fabula contadina che qua e là riaffiora), l’improvvisazione (il film è nato giorno dopo giorno sul set) e la poetica (le tinte pastello con cui sono tratteggiati i personaggi, la storia favolistica, terribile, benevola). Come in una jam session, in Le strelle nel fosso Pupi si libera della sintassi cinematografica servendosi solo di un baule di abiti d’epoca e dell’idea della morte nelle sembianze di una giovane donna.
«Davvero non avevo in mente il film. Avevo incassato la disponibilità a girare senza aver pattuito alcun compenso con il cast. Così ci siamo trovati sul set, io, Lino, Gianni, Carlo, Giulio, Roberta e gli altri, senza sapere cosa fare. La mattina, prima delle riprese, buttavo giù una sequenza, scrivevo i dialoghi su un bloc-notes, poi consegnavo agli attori i fogli. E loro recitavano. Senza chiedermi nulla. Anche perché – lo avevano capito – non sarei stato in grado di rispondere». E se le migliori jam session nascono dalla felice intuizione di un musicista, Le strelle nel fosso devono tutto al casone di Val Cantone lungo l’argine del Volano, nel comacchiese, luogo “abitato” dal vedovo Giove e i suoi quattro figli e dove la bella e misteriosa Olimpia finirà per far invaghire tutti di sé, prima di scomparire alle luci dell’alba. «La trovammo dopo giorni di sopralluoghi. Era una magnifica casa immersa nelle acque, al centro di un paesaggio evanescente, separato dal mondo. Devo tutto a quella costruzione. Mi ha consentito di fare un film, un film che ha ispirato e senza le cui suggestioni non sarebbe mai stato finito». Ecco la magia del jazz. Dare forma a un evento irripetibile, non replicabile senza il sentimento del momento, ciò che nel jazz chiamano mood. Perciò Pupi non ha dubbi: Le strelle nel fosso è «probabilmente il più bel film che abbia mai fatto in vita mia, sicuramente il più sfortunato. Nessuno o quasi l’ha visto». Nessuno o quasi ha potuto ascoltare la struggente Al streli in tal foss, un valzer lento dolcissimo con il testo in dialetto bolognese, scritto da Avati stesso per il film.
È la magia del jazz. La stessa magia che nella Bologna degli anni Cinquanta univa Charlie Parker a Peppino Camparino, il figlio della bella Ines, che dopo aver girato Le strelle nel fosso, quando il cast si era ormai congedato e le maestranze avevano lasciato il set, è tornato lungo l’argine del Volano, ha raggiunto il casone sprofondato nella nebbia e come un amante di cui nessuno deve sapere, l’ha baciato.
Nota
Le dichiarazioni di Pupi Avati presenti nel testo sono frutto di un intervista realizzata da Stefano Loparco.