
Nella multiforme attività di Pupi Avati si colgono gemme di assoluto rilievo, in un gioco di sottili o più marcate affinità – di coloriture estetiche e atmosfere evocate – tra film prodotti e film diretti. Si fa strada la convinzione che le produzioni avatiane confermino il periodo felice di un cinema artisticamente rifinito, espressione di un tempo in cui produrre, in Italia, era l’esito di contingenze e circostanze storicamente collaudate, in cui potevano convolare sceneggiature ispirate, collaboratori affiatati, interpreti e suggestioni del mondo del regista. Il trionfo di una tenuta produttiva cinematograficamente “media” nel senso più nobile del termine, attraverso pellicole costantemente attratte dal narrare la memoria, i sentimenti, le ancestrali e attraenti nebulosità con cui il racconto svela e rivela in un paesaggio di simulazioni e ritrovamenti. Facile individuare, nel gioco di assonanze, momenti in cui i film dei registi prodotti esprimono tracce di un percorso che Avati ha avviato, nonché sostanzialmente perfezionato.
La vicenda delle produzioni avatiane è sostanzialmente intrecciata a quella del fratello Antonio che nel 1976, assieme a Gianni Minervini, fonda la A.M.A. Film. Minervini, figlio del giornalista Roberto e della scultrice Annamaria, è un talent scout che nel 1977 produce, in collaborazione con gli Avati, anche il primo titolo interpretato da Roberto Benigni, Berlinguer ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci. La svolta dell’Oscar, ottenuto da Minervini nel 1991 per Mediterraneo, è un momento significativo perché fa conoscere un cinema stilisticamente in bilico, popolato da attori comici che trasportano sul grande schermo il sapore di una rivendicazione. Diego Abatantuono, per dirne uno, nasce comico e rivela doti drammatiche proprio grazie ad Avati, che lo incoraggia e ne favorisce l’affermazione con Regalo di Natale (1986), ben prima del successo dato da Mediterraneo. È un impulso anche per i produttori italiani, che cercano di appoggiare e lanciare nuovi volti.
Le produzioni avatiane ricevono particolare stimolo nei primi anni Novanta, quando il cinema italiano è al centro del dibattito tra il “neoneorealismo” di Marco Risi e i “territori di fuga” di Salvatores. Il cineasta bolognese, come da sempre ha fatto per le sue regie, anche in veste di produttore sembra cercare una sua specifica strada. È il caso del singolare Dove comincia la notte di Maurizio Zaccaro (1991), di cui Avati scrive soggetto e sceneggiatura. Affondando nella dimensione del mystery italiano che Pupi sostanzialmente reinventa, il film è un’opera prima di raffinata eleganza, che deve all’autore di La casa dalle finestre che ridono (1976) e Zeder (1883) la sospensione investigante e l’opportunità di utilizzare la stessa troupe di Bix. Un’ipotesi leggendaria (1991), in una fase in cui la DueA – evoluzione della A.M.A. Film senza Minervini – è al lavoro su set statunitensi. Una fase in cui l’incontro tra il brivido e le ambientazioni d’Oltreoceano cerca echi in sponde che rammentano sia i successivi lavori di Pupi (L’amico d’infanzia [1994], Il nascondiglio [2007]), sia le divagazioni di Dario Argento su temi noti (Due occhi diabolici [1990], Trauma [1993]).
Si tratta, in Zaccaro come in Avati e Argento, di paesaggi lontani dal clamore della metropoli, espressi tramite un approccio “provinciale” che svela anche l’attenzione per situazioni di intrappolamento. Il motivo dello stigma sociale, che disegna scenari di schiacciante oppressione, svela un orizzonte di cupezza che il giovane Irving Crosley ritrova quando, dopo la morte del padre Nat, torna in città per occuparsi della cessione della vecchia casa di famiglia. Il padre aveva intrecciato una relazione con la sedicenne Glenda Mallory, sua studentessa: questa si era tolta la vita mentre la madre di Irving aveva chiesto il divorzio, andandosene insieme al figlio. Irving, giovane attratto dalla vita e curioso di conoscere la verità, si imbatte in un reticolo di apparenze: mentre alcune testimonianze raccontano che Glenda è ancora viva e il suo suicidio solo una montatura per permettere di vivere di nascosto la relazione con Nat, alcune immagini di repertorio rimettono in discussione l’accaduto. Allora Irving inizia a indagare con l’aiuto di alcuni amici, mentre la casa sembra avere ancora impresse le tracce del passato.
Il mystery padano in contesti americani di Dove comincia la notte è espressione di un cinema che troveremo sempre più in difficoltà, di una produzione di genere che proprio con l’avvio degli anni Novanta conoscerà la progressiva marginalizzazione già affiorata nel decennio precedente. Per fortuna alcuni titoli riescono a fare, almeno in parte, la differenza. Quello di Zaccaro oscilla tra dimensione razionale e irrazionale: verità e apparenza trascolorano in un territorio costantemente ambiguo dove il regista, pur evocando solo con pochi accenni la dimensione del soprannaturale (il tintinnìo di un lampadario ormai rimosso, le gocce che provengono dal soffitto), non opta per il ritorno dall’oltretomba, mantenendosi nell’alea del fantasmatico soltanto suggerito. I morti sono in realtà vivi costretti a fingere il decesso pur di sopravvivere alla rappresentazione sociale che detta regole di condotta, creando un’atmosfera di finta serenità. Il regista affianca alle inquietudini di un’adolescenza curiosa le frequenti riapparizioni di Glenda, che lacerano il sostrato di credenze sulla sua relazione con Nat e mostrano il desiderio di espiazione che colora una scena dai sapori pirandelliani. La casa torna a essere – come la soffitta di La casa dalle finestre che ridono o i cunicoli di Il nascondiglio – il luogo della riapparizione degli indizi, il corpo violato di un’estraneità in grado di esibire la polvere del tempo in stratificazioni di dettagli e rimossi, segni di un mondo infantile che torna a galla esprimendosi nelle sembianze della presenza/assenza di oggetti. L’inconoscibile è lì, a portata di mano: spetta a noi coglierne la portata negli aspetti in cui si disvela la teatralità della rappresentazione.
Gli scenari classici del brivido sono ribaditi dalla padronanza di Zaccaro, da quelle soggettive che, senza un osservatore noto, testimoniano l’evocazione di un contesto dai margini di mistero, dove il nostro sguardo e la nostra curiosità non sono completamente soddisfatti perché l’ignoto rimane rinchiuso in quegli spazi inaccessibili, in cui l’individuo vive la paura e il paradosso di un’identità che si confronta con i limiti dell’interpretazione.
Dove comincia la notte, dopo l’intensa promozione iniziale, viene poi dimenticato piuttosto in fretta, ma non è il solo titolo prodotto da Avati che presenti note così inquietanti. A lui si deve anche l’esordio alla regia di Lamberto Bava il quale, dopo avere assistito il padre Mario in Shock (1977) e La Venere d’Ille (1979), debutta dietro alla macchina da presa con Macabro (1980) sotto l’egida della A.M.A. Film. Sceneggiato dagli Avati con Roberto Gandus e lo stesso Bava, Macabro è un dramma necrofilo che prende spunto da un soggetto curioso per disegnare un’atmosfera malsana. Una signora di mezz’età, Jane Baker, nasconde alla prole l’esistenza del suo amante e subisce i colpi di un destino tragico. Prima la figlia annega il fratellino nella vasca da bagno, dicendo alla mamma che è accaduta una disgrazia. Poi la donna si precipita a casa, ma ha un incidente d’auto in cui il suo compagno rimane decapitato. Privo di effetti orripilanti ma non di buchi di sceneggiatura, il film si regge sulla consapevolezza delle regole del genere e sull’estro visionario del regista. Con la partecipazione al già citato Berlinguer ti voglio bene si palesa invece la vocazione avatiana a produrre un cinema foriero di nuovi percorsi: l’opera di Bertolucci diventa, per gli spettatori cresciuti negli anni Settanta, un momento amatissimo.
Prendendo avvio dal monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, Bertolucci e Benigni scrivono un copione pieno di energia, sostenuto dalla forza espressiva dell’attore che nel 1977 porta in dote alla comicità italiana l’estro di una vitalità che proviene dalla cultura contadina, dal rapporto con la terra e la natura, espresso in modo irriducibile nel turpiloquio in cui Cioni Mario – nel campo, subito dopo la notizia della morte della madre e la conclusione di un’avventura galante appena avviata in una sala da ballo – espone la naturale urgenza della concretezza, che diventa un termine di riferimento per definire l’autenticità della realtà. Guardando a quella strepitosa produzione e al lavoro di Bertolucci e Benigni, si affaccia presto, come un’impronta indelebile, la frequentazione avatiana di un cinema che liberi la scrittura da vincoli narrativi risaputi e troppo legati alla commedia italiana, per offrirsi come manifestazione di una necessità, di un bisogno di autenticità. Per Bertolucci e Benigni il bisogno di donne, sesso, mamma e rivoluzione legittima la forza propulsiva di una proposta cinematografica in cui l’amore laico e carnale ha un tratto quasi sacrale, e la terra, la cultura che contempla i ritmi naturali delle cose, è espressione di un’energia politica a tutto campo.
Ma le produzioni cinematografiche degli Avati si avvicendano nel segno della politica e, al contempo, della (coerenza) poetica. Non è allora un caso che Avati produca due tra i film del regista di La lunga notte del ’43 (1960), Florestano Vancini, amatissimo dall’autore bolognese. Un dramma borghese (1979) e La baraonda (1980-1983) sono due pellicole un po’ atipiche: sostanzialmente, la prima è l’omaggio di Vancini all’omonimo romanzo di Guido Morselli e al libro che uscì postumo dopo il suicidio dello scrittore; la seconda è il tentativo di realizzare una narrazione corale durante la “sei giorni” ciclistica al Palasport di Milano in cui una bella ragazza, Erminia, cerca di convincere il medico sportivo Federico Salvi, padre del figlio nato dalla loro breve relazione estiva, a prendersi le sue responsabilità. Sebbene sia vero che Vancini ha coniugato con modi più convincenti e personali l’impegno politico raccontando gli episodi più significativi della guerra civile e della Resistenza, partendo dalle vicende sentimentali di personaggi calati nella realtà storica, le due opere prodotte da Avati risultano interessanti in virtù del doppio registro che segna il passaggio dal film d’interni claustrofobico, imperniato sulla centralità dei personaggi, a una narrazione corale dai tratti felliniani.
L’eclettismo dell’autore si fa eclettismo produttivo, confermandosi tanto nelle regìe, debitrici di ispirazioni e generi distinti, quanto nelle partecipazioni. Accanto a Pupi, come detto, c’è sempre Antonio, che produce tutti i film e viene premiato più volte per la sua attività: nel 1982, assieme a Minervini, riceve il David di Donatello per Fuori stagione di Luciano Manuzzi (1982); nel 1997, con Pupi e Aurelio De Laurentiis, vince il Nastro d’Argento per Festival (1996). Dettato dall’eclettismo è anche il proposito di sostenere i lavori di Cesare Bastelli (Una domenica sì [1986]), Piero Schiavizza (Un amore americano [1991]), Fabrizio Laurenti (La stanza accanto [1994]), Lucio Gaudino (Io e il re [1995]), Ugo Fabrizio Giordani (Il sindaco [1996]), Carlo Delle Piane (Ti amo Maria [1996]), Roberto Rivelò (Il più lungo giorno [1997]), Massimo Martella (La prima volta [1998]) ed Eugenio Cappuccio (Se sei così ti dico di si [2011]). Con Fuori stagione – storia lineare che affronta il drammatico problema dello stalking e farà del suo regista un collaudato professionista televisivo – Avati porta a Manuzzi il David come miglior regista esordiente. Producendo il delicato Una domenica sì, consente al suo aiuto regista Cesare Bastelli di riportare in scena Nik Novecento, giovane interprete bolognese scoperto da Pupi pochi anni prima e destinato a una fine prematura, appena ventitreenne, nel 1987. Bastelli incentra attorno allo stralunato attore una vicenda dai toni avatiani, nella provincia agrodolce in cui lo spirito goliardico si fonde a un sentimento di nostalgia, dove tre reclute in libera uscita sciupano una domenica promettente. Lo stesso Bastelli, con gli Avati e Felice Farina, è tra i registi del film a episodi Sposi (1987), con un avvio e una conclusione realizzati dal ritrovato Luciano Emmer e un episodio interpretato, di nuovo, da Novecento, cui il film sarà dedicato. Carlo Delle Piane, che al fianco di Elena Sofia Ricci qui interpreta il segmento diretto da Bastelli, nasce come attore comico quando nel 1951 viene scelto da Steno e Monicelli per affiancare Aldo Fabrizi e Totò in Guardie e ladri, ma deve all’incontro con Pupi Avati la scoperta delle sue doti drammatiche, coronate dalla Coppa Volpi alla migliore interpretazione maschile alla 43ma Mostra del Cinema di Venezia per il suo ruolo in Regalo di Natale (1986). E gli deve ugualmente l’esordio come regista con Ti amo Maria, interessante unicum dove il racconto della solitudine e la riflessione sulla felicità vengono affrontati con andamento contemplativo, sostenuto dalla recitazione sofferta e sentita che Delle Piane è riuscito a infondere ai migliori film di Avati e qui esprime bene il contrasto tra una persona spogliatasi di ogni dignità pur di amare e il mondo cinico e indifferente, incapace di misurarsi con l’infelicità altrui. Le produzioni DueA comprendono anche un sentito omaggio al disagio del poeta Dino Campana (Il più lungo giorno), un lavoro molto “avatiano” per i toni lirici e l’andamento nostalgico (Io e il re) e un’ulteriore incursione nel brivido tra lampi fulciani e rivelazioni inaspettate (La stanza accanto), a testimonianza di quanto gli Avati abbiamo saputo valorizzare, nella loro fucina di talenti, suggestioni e tensioni al contempo intime e collettive.