La lezione di Massaccesi. Scintille d'autore di un regista agli esordi
Corrado Colombo
Ispirazione (Argento) e traspirazione (Massaccesi)
Un motto variamente attribuito a Ernest Hemingway (per il campo umanistico) o a Thomas Edison (per quello scientifico) sosteneva che il genio è all’1% inspiration (ispirazione creativa) e al 99% perspiration (traspirazione, sudore, fatica). Questo pensiero è stato ripreso da François Truffaut, che l’ha applicato al lavoro del regista. L’ispirazione e la traspirazione per Michele Soavi hanno due nomi: Dario Argento e Aristide Massaccesi, numi tutelari di un cinema “fisico” dove l’azione il più delle volte prevale sul pensiero, l’immagine in movimento racconta più delle parole e il corpo del film è l’insieme dei corpi (esibiti, martoriati, violentati) messi in scena. È doverosa una premessa sulla formazione in generale dei registi. Schematicamente ci sono tre categorie: c’è chi inizia giovanissimo a frequentare i set cinematografici, svolgendo mansioni umilissime per poi approdare all’aiuto-regia e infine alla regia; chi frequenta scuole di cinema; chi invece è già affermato in altri campi (letteratura, giornalismo, fotografia) ed esordisce ricco di esperienze culturali, ma sicuramente poco allenato alla fatica del set. Perché il set è molto faticoso, non solo psicologicamente, per le mille responsabilità di cui un regista deve farsi carico, ma anche fisicamente. Mens sana in corpore sano: per fare film, oltre che essere ispirati, bisogna essere in forma ed essere allenati… come nello sport! Michele Soavi appartiene alla prima categoria, infatti inizia giovanissimo a partecipare a set cinematografici spaziando dalla produzione fino alla regia, con incursioni sorprendenti anche come attore. Questo suo vivere il cinema a 360° gli permette di diventare subito un numero uno. Deliria (1987), il suo film d’esordio, non solo non passa inosservato, ma diventa da subito cult, vince il primo premio al Festival Internazionale del Film Fantastico di Avoriaz e si afferma oltreconfine con i titoli Stage Fright e Bloody Bird. Soavi deve molto ad Aristide Massaccesi, un maestro-mentore da cui ha appreso quel “mestiere” che non è solo “saper mettere la macchina nel punto giusto”, impiegare il dolly o girare “spezzettato” o in “piano-sequenza”, ma è soprattutto ottimizzare i tempi, preferire alcune inquadrature (che si ritengono fondamentali) e sorvolare sulle scene di passaggio, curare maniacalmente i raccordi perché – più del budget, più del cast – è questo che fa la differenza (e lo sapeva molto bene Lucio Fulci) tra un film di serie A e uno di serie B. È lui che gli dà fiducia e con la sua casa di produzione, la Filmirage, lo fa debuttare decidendo all’ultimo minuto di togliere la regia promessa a Luigi Montefiori, che aveva scritto la sceneggiatura. Lo segue e lo supporta, intervenendo in prima persona come direttore della fotografia – ruolo in cui Aristide era insuperabile – nell’ultima settimana di riprese. Nella factory di Massaccesi, che ha incluso Antonio Bonifacio, Claudio Lattanzi, Fabrizio Laurenti, Claudio Fragasso ma anche Umberto Lenzi e Fulci, Soavi trova l’humus giusto per il suo cinema che è ancora in divenire, un cinema capace di esprimere l’autorialità nel genere. Quando il suo film si intitola ancora Aquarius ci pensa Luciano Martino – vecchia volpe del cinema commerciale, che ne cura la distribuzione nelle sale – a riportarlo sul binario giusto ri-titolandolo Deliria, che per assonanza fonetica ricorda Suspiria (1977). Anche perché l’ispirazione è molto argentiana, avendo Soavi collaborato con Argento in diversi film ed essendo chiamato proprio nel 1987 a dirigere la seconda unità di Opera. Il cerchio si chiude, e da Massaccesi si passa ad Argento. Ma, se Aristide è stato il suo coach, Dario è più un producer che gli destina progetti che non riesce a realizzare in prima persona, mette il suo nome come marchio di fabbrica e lo avvia a una carriera folgorante. In sintesi, Soavi deve ringraziare entrambi.
De fabula
Le origini di Deliria sono da ricercare nel giallo italiano anni Settanta, grazie all’innovazione del linguaggio e del genere operata da Dario Argento. Vengono da citare anche il Mario Bava di Ecologia del delitto (1971) – per la serie di omicidi efferati riconducibili al filone slasher che avrà molto successo nel cinema americano – e L’assassino ha riservato nove poltrone di Giuseppe Bennati (1974) per la sequenza di omicidi e l’unità di luogo e tempo: il teatro, tutto in una notte. Ciò che fa la differenza, rispetto ai film ispiratori, è l’estetica o, come si diceva negli anni Ottanta, il look, e qui è doveroso citare Brian De Palma, che in quegli anni è maestro indiscusso del cinema di paura lavorando molto sull’immagine, sulla dilatazione dei tempi narrativi, su metodi di ripresa che svelano quello che l’occhio umano difficilmente percepisce.
L’omicida seriale usa una maschera di scena a forma di uccello presa da una litografia di Max Ernst, ma crea la stessa inquietudine della maschera che indossa il protagonista di Il fantasma del palcoscenico (1974); la clinica psichiatrica scambiata per pronto soccorso ricorda quella di Le due sorelle (1973); la protagonista con parrucca bionda nell’incipit è il body double di Melanie Griffith, la pornostar Holly di Omicidio a luci rosse (1984); i carrelli in soggettiva sui neon dei corridoi sembrano presi da Complesso di colpa (1976); e si potrebbe continuare all’infinito nel trovare contaminazioni con il cinema depalmiano. Qualcuno potrà dire che forse è cinema argentiano, ma la differenza sostanziale è che Soavi usa il linguaggio per raccontare (come nel miglior De Palma), mentre Argento lo fa per raccontarsi. Per esempio, in Opera ci sono movimenti di macchina molto elaborati, motivati dalla soggettiva del corvo, ma alla fine si sente la macchina da presa e il tutto diventa un virtuosismo registico. Per Soavi, invece, ogni movimento di macchina è finalizzato all’economia del racconto. Tutto è molto essenziale, asciutto, americano… alla Carpenter, verrebbe da dire. Massaccesi ha questo stesso approccio: il racconto innanzitutto, con la fotografia e la regia che devono esserci, ma senza sovrastare la narrazione. Lo spettatore dev’essere accompagnato dai carrelli, accarezzato dalle panoramiche, coinvolto dalle soggettive in un gioco di mimesi totale tra rappresentazione e realtà. Per descrivere questo modo di fare cinema bisogna riscriverlo. Si analizzano di seguito i primi quattro minuti dopo i titoli:
1) Un carrello laterale a terra segue la camminata di un gatto nero fino ad arrivare ai piedi di una donna, scarpe con tacco argento e calze nere damascate. Il carrello diventa panoramica, l’inquadratura sempre stretta, e sale fino ad arrivare al volto di una ragazza che fuma, parrucca bionda e make-up appariscente. Fuori campo si sentono la frenata di un’auto e la battuta di un uomo: «Hey, amore, che ore sono?».
2) In campo totale la ragazza muove qualche passo. Sempre fuori campo l’uomo le urla: «Ma va all’inferno!» e si sente l’accelerata del motore. La mdp segue con una carrellata indietro la ragazza che cammina, arrivata davanti a un antro nero. Avvicinandosi, dal c.t. l’inquadratura è diventata a mezza figura, poi con una volée si abbassa sul piede e risale in panoramica sulla gamba.
3) Schermo nero, in primo piano entra il viso della ragazza. Due mani emergono dal buio, le stringono il collo e la trascinano nell’antro buio, mentre risuona una musica vibrante e nervosa. La mdp fa una panoramica su un muro di mattoni e si alza verso un’insegna al neon e una finestra dove una donna si affaccia spaventata.
4) Soggettiva dalla finestra con l’arrivo di una ragazza, simile alla vittima, che entra nell’androne buio.
5) Dall’interno dell’androne, in grandangolo e in controluce, la silhouette della soccorritrice.
6) P.p. della ragazza morta, con le mani di colei che cerca di rianimarla.
7) Dettaglio di gambe e piedi sul marciapiede. Il senzatetto si volta a favore di macchina svegliato dal trambusto, mentre le persone si accalcano sul luogo dell’omicidio (stesso carrello della prima inquadratura).
8) Folla che si affaccia sull’androne (inquadratura 5).
9) Mani della sul p.p. della vittima (inquadratura 6).
10) C.t. esterno dal basso. Accompagnato da un acuto di sax, con un balzo emerge dall’androne una figura vestita di nero con una maschera a forma di testa di barbagianni.
11) In p.p. la figura mascherata si rialza e inizia a ballare. La mdp la segue in panoramica, sempre a fuoco.
12) C.t. della scena. La figura mascherata continua a ballare e un gruppo di ragazzi la accompagna. La mdp arretra su un carrello e scopre l’intera scenografia, con riflettori, palcoscenico e spalle del regista.
13) In p.p. la sagoma dell’uccello che volteggia (inquadratura 11).
14) P.p. del regista che guarda attento.
15) C.t. coreografia (inquadratura 12).
16) Dettaglio del balzo del ballerino (inquadratura 11).
17) Flash dell’occhio di bue che imbianca lo schermo.
18) P.p. della sosia di Marilyn.
19) C.t. della coreografia, con gruppo che lancia il manichino della vittima.
20) P.p. del regista. Alle sue spalle, leggermente sfocato e in penombra, entra in campo un uomo con cappello.
21) Primissimo piano dell’uomo con cappello.
22) P.p. della maschera dell’uccello con una pistola puntata.
23) Il gruppo è attorno all’uomo mascherato e lo spoglia.
24) In dettaglio la svestizione del costume, quindi la macchina da presa in panoramica transita dal corpo della ragazza a terra (che ha preso il posto del manichino) e arriva al suo p.p.p. Lei apre gli occhi e si rianima (inquadratura 22).
25) Dalle quinte la sarta e una coppia di ballerini guardano divertiti la scena.
26) La ragazza rinsavita si avvicina al corpo di un ballerino in calzamaglia (inquadratura 22).
27) Davanti allo specchio una ragazza sembra essere in un camerino.
28) La ragazza rinsavita ruota la testa davanti al ballerino in calzamaglia (inquadratura 22).
29) Dettaglio di un viso di donna riflesso in uno specchietto da trucco.
30) In p.p.p. il regista guarda insoddisfatto.
31) In c.t., il gruppo tiene bloccato il ballerino con la testa di uccello. (inquadratura 23).
32) In p.p. una ragazza legge.
33) In p.p., da un manichino una mano prende una parrucca.
34) La ragazza che si preparava nel camerino si mette la parrucca.
35) La sarta e la coppia di ballerini guardano dalle quinte (inquadratura 25).
36) In un p.p.p. sulla sua bocca, il regista urla: «Stop!».
37) In c.t. un carrello in avanti accompagna il regista che sale sul palco, con aggiustamento di dolly per passare dalla platea alla ribalta. Il regista alla ragazza a terra: «Fai schifo! Lo sai cos’è una puttana? Ma certo che lo sai…accidenti!».
38) In p.p.p. l’uomo con il cappello fissa la scena ed esce di campo (inquadratura 21).
39) Sempre in c.t., la ragazza reagisce: «Ma Peter…»; e il regista: «Deve venire fuori il sesso… il sesso… lo capisci? (inquadratura 37)
40) P.p. dell’uomo con il cappello: «A me sembra che vada bene così, sta veramente esagerando con l’aspetto erotico!».
41) P.p. del regista, che si avvicina alla macchina da presa: «Le sembra troppo erotico? Ma signor Ferrari dov’è stato tutti questi anni?».
Si è così arrivati a 4 minuti e 45 secondi. Togliendo i 50 secondi dei titoli, si può affermare che in pochi minuti Soavi introduce lo spettatore nell’atmosfera del film con tre cambi narrativi molto forti: l’omicidio, il balletto, il backstage. Cattura da subito l’attenzione dello spettatore, lo stuzzica e incuriosisce, ma soprattutto lo inchioda alla poltrona. Una sorta di paradigma del suo linguaggio cinematografico fatto di accumuli, anticipazioni e sottrazioni.
Gli accumuli riguardano l’anarchica emotività del racconto, un puzzle di frammenti che solo alla fine si riesce a decodificare: una prostituta viene uccisa, una testimone con bigodini (Hitchcock touch!) sente urlare ma non vede nulla, una piccola folla accorre, rumori e colori di una metropoli americana… ma poi si scopre che è tutto finto, è una rappresentazione. Max Ernst e Marilyn Monroe sono forse lo specchio per allodole quasi a giustificare uno spettacolo fatto di eros e thanatos? Il regista che urla in cerca di verità non è forse simile al Jean-Luc Godard che in Passion (1982) cerca la luce giusta dell’arte figurativa e intanto infila un nudo dopo l’altro? L’abilità consiste nel saper dosare gli accumuli con le pause.
Il gioco delle anticipazioni è sia visivo che testuale: la ragazza che in camerino si sta preparando poi sostituirà la protagonista, la ragazzina che legge (Il mestiere dell’attore di Stanislavskij) sarà uccisa sul palco, per non parlare del gatto nero Lucifero che comparirà nei momenti topici dove si annida la suspense.
Le sottrazioni riguardano queste inquadrature strette, asfittiche, con i bordi sfocati, dove il low budget si trasforma in una scelta stilistica e dove più che mostrare si nasconde. Il ripetere le stesse inquadrature, l’utilizzo del medesimo punto macchina cambiando solo gli obiettivi per vivacizzare la scena hanno reso Deliria forse l’esordio più interessante degli anni Ottanta. Sono abilità tecniche che arrivano dal cinema di Massaccesi, che aveva adattato il lavoro di regia su quel che più conosceva e amava: la luce. Soavi sa “rubare” questo mestiere e adattarlo alla sua poetica, alla sua idea di cinema. Dopo questi primi quattro minuti frenetici, il racconto si distende, si concentra sui rapporti tra i ballerini, il regista e il produttore e bisognerà aspettare il ventesimo minuto per assistere al primo omicidio. Poi arriva la sequela di delitti e infine l’epilogo dove la protagonista è sola con il maniaco omicida: trattasi di un blocco narrativo dove la regia è immagine ed emozione, suggestione e terrore, cinema allo stato puro con carrelli che si inseguono a vicenda – come la preda e il predatore – in un labirinto angosciante che ricorda il mito di Minosse e il Minotauro ma anche e soprattutto il primo Alien di Ridley Scott (1979).