Morte sospetta di una minorenne. Sul filo tagliente dei generi
Matteo Vergani
Scrutando in controluce – grazie al filtro analitico e alla distanza critica della posterità – l’intera opera cinematografica di un autore come Sergio Martino, è possibile scorgere in filigrana la presenza di un’evidente coerenza poetico-stilistica rivolta specificatamente a un cinema di genere che trova la sua forma più rivoluzionaria in una pellicola programmaticamente sperimentale e solo apparentemente mediocre rispetto alle produzioni più note e declamate del regista romano.
Morte sospetta di una minorenne (1975) si colloca proprio a metà di un decennio figlio degli sconvolgimenti linguistici del modernismo e a sua volta padre dell’imminente citazionismo inter/intra-filmico postmodernista. Da una parte, così, il film si delinea come un felice esperimento di contaminazione fra alcune delle più floride correnti cinematografiche, strutturatesi mediante la serializzazione e la standardizzazione di convenzioni testuali codificate nel corso delle decadi precedenti; dall’altra fa sfoggio di un’arguta capacità di rilettura (qui in chiave volutamente grottesca e dissacrante) dei codici e delle convenzioni ufficiali del genere classico e moderno. Attraverso l’uso strategico di un marcato “citazionismo critico”, Martino omaggia e al contempo manipola suggestioni antecedenti e in parte parallele, il tutto attraverso uno spiccato gusto per la contaminazione che rende Morte sospetta di una minorenne un autentico compendio della migliore produzione di genere made in Italy.
Partendo da un plot a uso e consumo fra i più sfruttati dal glorioso e variegato poliziottesco – in una fredda e indifferente Milano industriale un commissario sotto mentite spoglie si trova a indagare su un losco traffico di minorenni, in cui è implicato un industriale senza scrupoli – Martino cavalca e doma con grande padronanza ben tre generi interconnessi, riproponendo accademicamente i cliché classici di ciascuno, salvo poi smontarli e reinventarli secondo una rilettura personale.
In primo luogo, accanto alla matrice poliziesca con tutti i suoi connotati tipici (estetica minimale pseudo-documentaria, moderata violenza iperrealistica, freddo protagonismo urbano, estetica dell’indagine, antieroe ruvido e moralmente equivoco), tramite alcune delle sue consuetudini più spiccate e fondative (l’estetizzazione coreografata del delitto, l’uso della soggettiva del killer) si fa strada sottopelle la struttura tipica del thrilling all’italiana, codificata da Mario Bava a inizio anni Sessanta e istituzionalizzata da Dario Argento a fine decennio – anche se ancora oggi rimane aperta la querelle critico-storica su chi sia stato in effetti a ipotecare realmente il genere. Al contempo viene attuato lo sradicamento di altri tòpoi: succede con lo straniante twist narrativo con cui lo spettatore scopre, a oltre tre quarti del film, che il protagonista interpretato da Claudio Cassinelli – apparentemente il classico detective improvvisato del giallo nostrano – è in realtà un commissario sotto copertura. In questo modo è invertito il normale equilibrio di ruoli tra forze dell’ordine, dipinte per lo più come incapaci e svogliate, e uomini comuni alle prese con macchinose e oscure sottotrame. Ed è in questa sede che il “citazionismo critico” di Martino fa la sua prima comparsa, introducendo rimandi (un piccolo soprammobile di cristallo a forma di uccellino) e mettendo in scena sequenze (il volto di una donna infranto contro una finestra, una gag avente come fulcro un’automobile sgangherata) che strizzano l’occhio ad alcuni dei titoli più noti della primissima produzione argentiana, da L’uccello dalle piume di cristallo (1970) a Profondo rosso (1975). Sempre al cinema del collega e dei suoi epigoni fanno poi riferimento alcuni espedienti scelti da Martino per dare sostanza alla propria strategia di meta-testualità filmica: l’incompetenza di poliziotti e procuratori (qui resa mediante lo scontro farsesco tra il commissario protagonista, nordico e stacanovista, e un capo della polizia davvero poco professionale di chiara provenienza meridionale) e la presenza di una spalla comica rappresentata da un bizzarro borseggiatore che ricalca quasi integralmente le performance surreali del caratterista Gildo Di Marco nella trilogia degli animali.
Tali continui richiami a una dimensione farsesca e cialtronesca inoculano – seppure in modo controllato e stemperato – il germe della commedia all’italiana, il cui tessuto viene rimodellato in chiave camp tramite gustosi sketch che vedono contrapporsi ciascuno dei personaggi principali, attraverso un uso macchiettistico delle caratterizzazioni dialettali. Ciò contribuisce a creare un cortocircuito fra generi che, al termine della stagione più prolifica del giallo made in Italy, fa fronte alle richieste di un mercato bisognoso di varianti.
In ultima analisi emerge, accanto alla matrice poliziesca e gialla marcatamente all’italiana, la presenza di un legame molto profondo con il thriller puro di matrice americana, soprattutto laddove Martino abbandona temporaneamente la cinefilia nostrana per occhieggiare a più riprese ad alcuni dei numi tutelari della suspence d’oltreoceano. La ricorrenza degli occhiali infranti dal protagonista richiama esplicitamente l’hitchcockiano L’altro uomo/Delitto per delitto (1951), così come l’orchestrazione dell’ottima sequenza d’inseguimento automobilistico parte da Milano calibro 9 (1972) di Fernando Di Leo per approdare alle adrenaliniche prodezze dell’ispettore Harry Callaghan coniato da Don Siegel.
Maestro nel districarsi con apparente disinvoltura fra registri narrativi tra loro ben distinti – ed eminente rappresentante di un cinema sempre sul filo pericoloso che divide l’artigianalità dal professionismo – Martino fa di Morte sospetta di una minorenne un’opera-campione in cui sperimentare linguisticamente e divertirsi nell’esercizio citazionistico inter e intra-testuale. Sempre tenendo un occhio vigile puntato sulla contemporaneità di un cinema di genere all’epoca più che mai fulgido, eppure già minacciato dalle intemperie di un imminente decennio votato al prosciugamento della specificità dei vari compartimenti estetico-narrativi.
CAST & CREDITS
Regia: Sergio Martino; soggetto: Ernesto Gastaldi; sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Sergio Martino; fotografia: Giancarlo Ferrando; scenografia: Paolo Innocenzi; costumi: Elio Micheli; montaggio: Raimondo Crociani; musiche: Luciano Michelini; interpreti: Claudio Cassinelli (Paolo Germi), Mel Ferrer (questore), Lia Tanzi (Carmela), Gianfranco Barra (Teti), Jenny Tamburi (Gloria), Adolfo Caruso (Giannino), Patrizia Castaldi (Marisa), Massimo Girotti (Gaudenzio Pesce), Barbara Magnolfi (Floriana); produzione: Dania Film; origine: Italia, 1975; durata: 100’; home video: dvd Aegida; colonna sonora: Beat Records Company.