Il suo cinema è una stanza chiusa e solo lui ne ha la chiave. Il giallo di Sergio Martino come affare di/in famiglia, tra claustrofobia e claustrofilia
Rocco Moccagatta
Che il cinema per Sergio Martino sia un affare di famiglia, anzi in famiglia, è una battuta piuttosto scontata. C’è innanzitutto l’imprimatur dinastico dato dal nonno materno, l’attore e regista Gennaro Righelli, tra i protagonisti più amati del nostro cinema dai tempi del muto fino agli anni Trenta e Quaranta, cui certamente si deve l’ingresso della famiglia Martino nell’industria cinematografica. Ma, ancor più, conta la figura del fratello maggiore Luciano, produttore fondamentale per capire davvero cosa siano stati cinema popolare e generi italiani dalla metà degli anni Sessanta almeno fino agli Ottanta (e, forse, anche un po’ dopo, quando se ne scopre la presenza, magari nascosta, dietro tanti illustri esordi e piccoli casi persino negli ultimi anni). Buona parte della carriera di Sergio si svolge sotto l’ala produttiva di Luciano, in un gioco delle parti quasi privato che vede di fatto quest’ultimo, dopo qualche sortita dietro la macchina da presa agli inizi (soprattutto in tandem con Mino Loy, all’epoca suo socio), delegare pressoché completamente al fratello minore il ruolo di regista principe della factory (che assumerà nomi e sigle diverse nel tempo, anche se per quasi tutti saranno sempre e solo “i fratelli Martino”). L’ombra lunga del fratello produttore pesa da sempre sul legittimo riconoscimento di una fisionomia propria e originale di Sergio Martino, quasi come se il suo prestarsi spesso e volentieri a tradurre cinematograficamente idee, spunti, trovate di Luciano costituisca in qualche modo un ostacolo.
Anche la conversione al giallo di Sergio – in una filmografia quanto mai varia e composita, ma all’epoca, di fatto, agli inizi – non pare dettata da una vocazione personale impellente. Piuttosto, si manifesta più prosaicamente come esigenza di raccogliere e serializzare l’intuizione commerciale del momento di Luciano: la formula del giallo ereditario alla francese post-Diabolici di Henri-Georges Clouzot (e post-caso Fenaroli), varata con successo in Il dolce corpo di Deborah da Romolo Guerrieri (ed Ernesto Gastaldi) e incrociata con il lancio definitivo della neo-diva “di casa” Edwige Fenech quale protagonista indiscussa. Semmai, Sergio Martino si riconosce il merito di averla ammodernata, dopo già un paio di variazioni in house e all’esterno, contaminandola con umori e forme del nascente thriller argentiano fin dal primo titolo della “sua” serie anni Settanta, Lo strano vizio della signora Wardh (1971), augmentato in corsa con il plot dell’assassino nerovestito e maniaco.
Ecco, proprio questa idea del cinema come emersione in filigrana di un’identità di famiglia diventa anche l’imprinting del giallo martiniano che, dentro le coordinate tracciate dal prototipo del 1968 (dove Sergio era organizzatore), è comunque quasi sempre un thrilling da camera, da luogo chiuso, claustrofobico. Sicuramente Lo strano vizio, ma anche Tutti i colori del buio (1972) e Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave (1972) abbondano di stanze chiuse, luci che filtrano sotto le porte, chiavistelli e serrature forzate, qualcuno al di là della soglia in agguato e qualcuno (più spesso qualcuna) al di qua in pericolo. Rimane più a latere La coda dello scorpione (1971) che, però, è film anomalo fin dalla genesi, segnato dall’assenza della Fenech (in gravidanza), dal tentativo di mettere al centro un (anti)eroe maschile, da esigenze cine-turistiche di (s)fondo quasi più tipiche di uno 007 o di un film di truffa nostrano.
Poi, in una filmografia così varia, densa e articolata, niente si manifesta mai davvero un’unica volta e tutto ritorna, più o meno consapevolmente, in diverse occasioni. Il voyeurismo omicida dei gialli, con il classico senno di poi, è già suscettibile a capovolgimenti nel voyeurismo da commedia(ccia). Non a caso, in La coda dello scorpione l’inquadratura di una donna nuda, spiata dallo spettatore e dall’assassino attraverso il buco della serratura prima di essere uccisa, è trait d’union perfetto tra il Martino giallo e quello eroti-comico, che non sono fasi o momenti diversi del e nel suo cinema, ma possono convivere senza traumi, perfettamente intercambiabili, perché espressioni appunto di una idea produttiva della factory: «il film giusto da fare in quel momento» dice spesso Martino nelle interviste; giusto per il mercato, per il pubblico, prima ancora che per lui. E se il polimorfismo sessuale spericolato nelle famiglie viziose dei gialli dei primi anni Settanta non ci sembrasse già prefigurare a sufficienza certe consanguineità maliziose e convivenze goliardiche della sexy-commedia in famiglia successiva, tra mogli in vacanza e amanti in città, sarà bene ricordare che una delle prime docce acclamate (se non la prima) della “divina Edwige” è proprio all’inizio di Tutti i colori del buio, con l’attrice impegnata – pure, in contemporanea, con le Giovannone coscialunghe e le Ubalde tutte nude e tutte calde – a far fruttare appunto l’investimento (anche sentimentale) di Luciano Martino su di lei.
Nella formula, com’è ovvio, entrano i contributi di tanti, e infatti il giallo martiniano si muove sempre nella comfort zone di un cast tecnico ricorrente e confermato, tipico della factory di famiglia (Giancarlo Ferrando alla fotografia, Eugenio Alabiso al montaggio, etc.) dove tanto si deve alla penna di Gastaldi: quel cubetto di ghiaccio che, sciogliendosi, fa chiudere dall’interno la stanza dove la signora Wardh dovrebbe morire intossicata – ingegnosa variazione del delitto con stanza chiusa dall’interno – è con evidenza una trovata ricorrente dello sceneggiatore, che già in un precedente spionistico prodotto proprio da Luciano Martino (Duello nel mondo di Luigi Scattini [1966]), immaginava un killer fantasma con letali proiettili di ghiaccio per non lasciare tracce.
A merito di (Sergio) Martino, però, va sicuramente l’avere assorbito e introiettato anche questi contributi altrui in un sistema coerente e riconoscibile, entro il quale muoversi appunto con grande familiarità. Perché la dimensione claustrofobica del giallo martiniano non è pura forma, ma si fa anche contenuto, ribaltandosi in una claustrofilia perversamente rassicurante. Stanze chiuse e famiglie soffocanti, questioni ereditarie, corna, uxoricidi, parenti serpenti: (quasi) tutti i gialli martiniani stanno in quel perimetro di tensione e violenza domestica, appena nascosto da un sottile velo d’ipocrisia (alto)borghese. Che funziona, appunto, sia come declinazione estenuata della formula del prototipo del Dolce corpo di Deborah, sia come ricombinazione continua dei cast. George Hilton, Luigi Pistilli, Alberto de Mendoza, Ivan Rassimov, Edwige Fenech e Anita Strindberg sono, infatti, volti e corpi continuamente riproposti e minimamente variati nei ruoli e nelle funzioni: ora vittime ora carnefici, più d’uno oltretutto intimamente legato alla factory Martino (Edwige è la fidanzata di Luciano, Hilton suo cognato). Anche da questo, forse, deriva quel tratto claustrofobico del giallo di Martino, che, però, è anche sempre desiderio un po’ morboso di rassicurazione nello stare dentro coordinate spaziali (e produttive, e tematiche) ricorrenti e ripetute. La chiusura, d’altronde, c’è anche nei set, imposta dalle rigide ragioni di co-produzione d’epoca (la Spagna in primis) che, fino al Veneto di Il tuo vizio, richiedono sempre la generica (e stereotipata) ambientazione estera, sentita come necessaria per quel tipo di storie (Londra soprattutto, che ha sostituito dalla fine degli anni Sessanta la Parigi di Europa di Notte come capitale del vizio).
Dentro un giallo che è già chiuso e claustrofobico di per sé (la famiglia, il cast, i set), Martino rincara a sua volta la dose e lavora molto sugli spazi chiusi. Lo strano vizio della signora Wardh non lascia dubbi: il morbido ed elegante piano sequenza che accompagna Julie/Edwige nel proprio appartamento, sempre più nuda e turbata da un ambiente che dovrebbe esserle familiare, in un’atmosfera sottilmente inquietante, senza che nulla alla fine accada davvero, è già una dichiarazione d’intenti. Poi, è vero che il giallo italiano è la somma di un corpo (femminile, di solito) dentro una scenografia tortuosa e barocca, possibilmente con l’accompagnamento di una partitura musicale molto accentuata; e le accensioni di piacere del genere stanno proprio nel muovere quel corpo in spazi costretti e opprimenti, anche con soluzioni di regia estreme. Scale, meglio se a chiocciola, tetti (solo apparentemente aperti, in realtà limitati, quanto se non più delle stanze chiuse), cantine, garage e ascensori sono luoghi che costringono le protagoniste (e noi con loro) al piacere del pericolo. Ma Martino, a differenza di Argento e Bava, è regista realistico, non tentato dal fantastico, dall’escogitare spazi non euclidei, dall’abolire le leggi della prospettiva e dello spazio (e, infatti, Tutti i colori del buio, che pure, nel suo predare certe atmosfere polanskiane d’epoca, si presterebbe a un escapismo soprannaturale, si chiude con una spiegazione razionale).
Questa vocazione a lavorare sugli spazi chiusi implica che anche quelli aperti si possano (e si debbano) chiudere, con continui scambi tra interno ed esterno. Non a caso, la celebre sequenza de Lo strano vizio (secondo molti, ripresa da Argento in 4 mosche di velluto grigio [1971]), con l’amica di Julie in inquieta attesa al tramonto al parco per incontrare il misterioso ricattatore, si converte, complici le alte siepi e il fitto intrico della vegetazione del luogo, in un’altra delle letali camere chiuse tanto care a Martino. E il primo omicidio di Il tuo vizio fa della cava uno spazio non meno sigillato e ostruito della villa palladiana teatro di gran parte della vicenda (probabilmente la più claustrofobica e insieme claustrofiliaca del cinema martiniano). Forse, però, la massima permeabilità e liquidità tra spazi chiusi e aperti dei film del regista non va ricercata in uno dei suoi gialli puri, quanto piuttosto in uno di quegli ibridi che mescolano giallo e poliziesco negli anni successivi, per seguire i gusti del pubblico: in Morte sospetta di una minorenne (1975), durante un concitato inseguimento sul tetto di un cinema (il Jolly, a Roma, anche se controfigura una sala milanese), questo si apre all’improvviso, risucchiando all’interno inseguito e inseguitore.
Il repertorio martiniano è ampio e articolato, come si vede, e scivola anche in altri titoli “apocrifi” (come Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? [1972], sempre con la coppia Fenech/Hilton, sempre scritto da Gastaldi, sempre prodotto da Luciano, ma diretto da Giuliano Carnimeo). Non è un caso che Hélène Cattet e Bruno Forzani, per il loro Lacrime di sangue (2013), vi attingano a piene mani (fin dal titolo originale L’étrange couleur des larmes de ton corps) ritrovando proprio in quei gialli (molto più che in Argento) un serbatoio di forme e di idee visive formidabile per esprimere il senso claustrofobico dell’omaggio che tributano al genere nella sua declinazione italiana anni Settanta.
Alla fine, allora, l’unica eccezione davvero consapevole e voluta a questo stato martiniano delle cose va ricercata nell’ultima incursione nel genere in forma pura: I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) che – non a caso – del lotto storico anni Settanta è l’unico non prodotto in famiglia, ma addirittura da Carlo Ponti (tramite la sua sigla dell’epoca, la Champion) con un cast, soprattutto femminile, completamente fuori dalle solite routine e con un’ambientazione italiana insolita in quel di Perugia (scelta in ragione della sua università frequentata dagli stranieri, utile a dare una dimensione internazionale). Anzi, la struttura perfettamente bipartita tra città e campagna nella quale la vicenda si articola riserva più di una sorpresa, ribaltando le attese in un perfetto scambio tra primo e secondo segmento: in città sono evitati quasi completamente gli spazi chiusi, mentre in campagna si stringe sempre più ossessivamente nella villa che diventa teatro della mattanza finale. Questa libertà di scompaginare e sovvertire spazi e set appartiene praticamente solo a I corpi, che, finalmente, può permettersi di fare a meno del solito movente ereditario e del complottismo familiare dei film precedenti.
Ma c’è anche altro evidentemente, oltre l’upgrade di budget che lo stesso regista riconosce alle produzioni di Ponti. Infatti, la fuoriuscita dalla factory di famiglia si traduce nell’ambizione di poter essere non più (solo) ennesima declinazione di una formula altrui, ma pietra fondativa di un nuovo (sotto)genere, che attecchirà oltreoceano di lì a qualche anno con lo slasher, anche se, ovviamente, sarà più chiaro in seguito. Per questa via, paradossalmente, I corpi si trova in sintonia con un altrettanto seminale titolo anticipatore di un paio d’anni prima, Ecologia del delitto (1971), anche se lì c’era il furore dadaista tipico del Bava anni Settanta, lontanissimo dalla necessità di far quadrare il cerchio propria di Martino (e Gastaldi).
Quest’emancipazione in realtà sarà solo una parentesi ripetuta l’anno dopo per Cugini carnali (1974) – film completamente diverso e molto personale, quasi intimo, sul filo di ricordi più volte riconosciuti come privati, a sua volta tutto dal buco della serratura – mentre Milano trema: la polizia vuole giustizia (1973) reca come sigla un “Dania Champion” che esplicita il ritorno all’ovile, anche se ancora in co-produzione con Ponti. Ma resta forte la tentazione di leggere, sia pure per lo spazio di un film (due, con Cugini Carnali), un tentativo di uscire dall’abbraccio (spesso) soffocante del cinema di e in famiglia dei Martino’s.