Il tocco elegante di Sergio Martino. Il pensiero critico di un regista consapevole
Giona A. Nazzaro
Quando si andava al cinema da ragazzi – un po’ di tempo fa ormai – e una certa idea di gusto, per quanto ancora fragile e balbettante, iniziava a manifestarsi, il nome di Sergio Martino era già una garanzia di qualità. Sapevamo – e chissà come era avvenuta questa connessione, con quale film – che con una pellicola di Martino le nostre sudatissime cinquecento lire, che stavamo per consegnare al botteghino di un dimenticato cinema della provincia beneventana, sarebbero state ben spese. In qualche modo, nella testa e negli occhi di noi spettatori piccoli ma voraci, si era fatta largo l’idea che Sergio Martino fosse un regista “elegante” così come Enzo G. Castellari era un regista “violento”, Alberto De Martino uno che faceva film “all’americana” e Umberto Lenzi uno “cattivo”, da cui dovevi sempre attenderti la zampata crudele quando meno te l’aspettavi. Semplificazioni di un gusto non ancora formato, certo, ma che oscuramente aveva intuito delle cose. A fronte quindi delle rivalutazioni di cui hanno giustamente beneficiato autori come Castellari e Lenzi, per restare agli esempi succitati, ci si chiedeva come mai al Nostro non si prestasse la dovuta attenzione.
Quando, agli albori della NoShame Films, abbiamo messo mano al catalogo della Dania con il benemerito Luciano Martino ancora in vita («capitano d’industria», come lo definisce giustamente Luc Merenda) lavorando a una collana di dvd che riproponevano in nuove vesti editoriali il corpus dei gialli di Martino, ci siamo resi conto, vedendo e rivedendo questi film, che quell’oscura sensazione emersa al buio di un cinematografo – Martino cineasta elegante –era molto più che un’intuizione.
Sergio Martino, che a uno sguardo superficiale sembra inserirsi in maniera abbastanza naturale nel canone dell’euro thriller post-argentiano, è in realtà il regista che più degli altri comprende il contesto nel quale si muove e che, di conseguenza, tenta di immaginare anche una strategia produttiva a più lungo termine rispetto alla voracità di un’industria che negli anni Settanta celebrava, senza saperlo, il proprio irripetibile apogeo. Nel corso delle numerose conversazioni con Martino filmate per le edizioni statunitensi dei suoi film, è emerso con lucidità un pensiero che da un lato portava il cineasta a minimizzare il proprio lavoro con umiltà e modestia nient’affatto false, dall’altro lo spingeva lungo i sentieri di una preziosa riflessione critica nei confronti dell’industria. Riflessione, questa, che purtroppo non è stata accolta.
Più che il vezzo di un autore, l’eleganza di Martino è il segno della solidità produttiva di un regista che immagina con grande precisione il contesto internazionale nel quale i propri lavori saranno fruiti una volta oltrepassati i confini italiani. Sergio Martino, infatti, da cineasta italiano, si pone da subito il problema di un cinema che sia fruibile anche all’estero non come bizzarria esotica, ma in virtù delle proprie qualità. Nei suoi ragionamenti emerge più volte il tema del confronto con gli amati e temuti Stati Uniti, insieme alla consapevolezza di dovere fare sempre di più con sempre meno.
Per tutti gli anni Settanta il nostro cinema tiene botta: fintanto che si tratta di rilanciare sul sesso e la violenza, riesce a dare filo da torcere a produzioni che risentono di maggiori limitazioni. Costando di meno e offrendo di più, il cinema di genere italiano si ritaglia un’identità che è solo sua. Martino, però, sa che questo non basta. Che non durerà. Neanche quando si tenterà di correre ai ripari con produzioni coraggiose (I corpi presentano tracce di violenza carnale [1973]), dove l’idea di rifare all’italiana il cinema americano raggiungerà vertici tuttora ineguagliati (la danza della porta e della chiave, per dirne una).
Sergio Martino, insomma, pur lavorando all’interno di un sistema, il cinema industriale e di genere italiano, calato dentro il meccanismo dell’azienda di famiglia il cui ritmo impone due o tre film all’anno (fa eccezione il biennio 1977-1978 con un solo titolo a stagione), comprende che la sfida con gli americani, anche all’apice del potere economico del cinema italiano, è già persa. Intuisce che senza un rinnovamento delle strategie produttive e, soprattutto, senza un investimento serio, strutturale, continuo e non improvvisato, nel confronto con le nuove tecnologie degli effetti speciali non c’è partita. Il luogo più indicativo per osservare questa riflessione critica è costituito dai film martiniani post-atomici e puramente fantastici come gli eco-vengeance. Non perché siano pellicole non riuscite o sgangherate, tutt’altro, ma perché in esse è avvertibile da un lato la resistenza del regista artigiano che tenta, attraverso la sua eleganza, di riaffermare un primato che sente farsi sempre più fragile e, dall’altro, la consapevolezza autunnale che un ciclo è giunto a conclusione. Martino comprende che non si può più giocare a inseguire gli americani: a uno squalo non si può continuare a rispondere con un coccodrillo o un’orca gigante (anche se un falsario un po’ cialtrone, ma a suo modo geniale, come Assonitis ci ha provato sino alla fine…). È l’industria stessa che deve cambiare. Anche se, Martino lo sa, così non sarà.
Ed è per questo motivo che oggi i film del regista ci sembrano a tratti più ricchi di quelli degli illustri colleghi i quali, all’indomani degli anni Ottanta, sembrano essere stati presi alla sprovvista dalla tv commerciale e dalla conseguente diminuzione del potere d’acquisto del cinema. Sergio Martino lo ha intuito e, poco alla volta, accetta l’idea che la televisione sia un modo come un altro, in mancanza di quel rinnovamento strutturale della produzione, di continuare a fare cinema popolare. Certo profondamente cambiato, con un passo diverso. Ma, del resto, si deve pur andare avanti.
Questo racconto – non affidato ad alcuna storia del cinema, ma a una serie di interviste svoltesi nei locali della Dania, in genere nell’ufficio di Martino o sulla terrazza quando il tempo era mite (i Parioli con il sole a primavera sono un mondo a parte…) – è possibile leggerlo in filigrana attraverso la filmografia di un regista che non ha mai smesso di mettersi in discussione, che ha tentato di rilanciare la sfida della produzione e al tempo stesso di inventarsi soluzioni che restassero attaccate alla retina dello spettatore: i giochi cromatici di La città gioca d’azzardo (1975), le follie di un operatore e direttore della fotografia come Giancarlo “FerRambo” che si è sempre messo in gioco per Martino e i suoi film, la precisione degli inseguimenti, la vocazione politica del racconto in, per esempio, La polizia accusa: il servizio segreto uccide (1975). Rispetto ai suoi colleghi a volte più celebrati, insomma, Sergio Martino è forse l’unico regista di quella magnifica nidiata di artigiani e sabotatori dei generi dominanti ad avere compreso in tempo reale cosa stava succedendo e cosa sarebbe stato possibile fare per tentare di invertire la direzione di un movimento che, invece, si preparava a un epilogo già scritto.
Non sorprende dunque la sua modestia quando, un po’ imbarazzati, si ammette di non avere mai smesso di amare Mannaja (1977) dopo averlo scoperto in un cinema decenni fa, attratti da un Maurizio Merli western che però per noi era sempre il commissario Betti. Nel 1976 Keoma di Castellari si era proposto come la pira funeraria del western all’italiana. Un anno dopo Mannaja, pur nella sua magnifica durezza crepuscolare, tentava di esorcizzare una fine che era in procinto di abbattersi sul cinema italiano e che, forse, si era addirittura già verificata. Ecco: Sergio Martino, il più elegante fra i grandi maestri del nostro cinema di genere, si presenta come lo sguardo critico attendibile su ciò è stato un certo cinema (critico anche – forse soprattutto – nei confronti di una legge del mercato che imponeva letteralmente di saturare tutti gli spazi possibili con un numero altissimo di pellicole). Ed è per questo che oggi si offre a coloro che riscoprono il suo lavoro senza l’acredine o l’amarezza di registi che invece, a torto o ragione, si sentono traditi, trascurati o mal compresi. Sergio Martino ha sempre saputo quali erano le regole del gioco. A suo modo ha tentato a tratti anche di aggirarle – con il suo tocco inconfondibile – ma non si è mai fatto illusioni sulla natura del gioco stesso. E tanto meno su se stesso. Per questo motivo i suoi film oggi ci appaiono vitali e ancora tutti da scoprire: perché animati e retti da una lucidità critica che non bara e si offre ancora come possibilità di discorso affidabile. Concreto.
Grazie, maestro.