Il grande (dittatore) rimosso
Claudio Bartolini
La storia su un tavolo operatorio, alla ricerca di una ferita mai (mal) cicatrizzata. Il ritorno eterno a quel punto vitale inciso, mai del tutto reciso, frettolosamente cauterizzato e ora marcescente nella memoria. Noul val românesc – nuovo cinema romeno, arte della cicatrice, dell’incessante ricerca di un dialogo impossibile con un passato fin troppo prossimo quanto a riverberi nel presente, eppur troppo remoto per poter essere raccontato con realismo empirico. La piaga imposta dalla dittatura comunista esige un’arte continuamente ripiegata, da una parte verso il controllo dell’effettiva rimarginazione, dall’altra verso nuovi interventi per limitare ulteriori fuoriuscite di dolore. Dal 1989 a oggi, il cinema romeno è arte della sutura impossibile, del continuo ma frammentario ritorno a quei quarantadue anni di comunismo e, in particolare, ai ventiquattro di regime scanditi dal culto della personalità di Nicolae Ceaușescu. «Per decenni, d’altronde, una vera e propria “cinematografia” romena, nel senso di un movimento creativo e produttivo in costante evoluzione, non è di fatto mai esistita, sclerotizzata com’era in produzioni di genere storico e apologetico o innocuamente umoristico. Più che scuola di cinema, quella romena era accademia, e di partito»(1). La settima arte romena, intesa come movimento artistico, nasce dunque a partire dalla rivoluzione del 1989 e dalla conseguente esigenza di tornare a fare luce sul buio per comprendere, esorcizzare e riflettere una stagione contrassegnata da un blocco, da un rimosso. Come una seduta di psichiatria nazionale, il cinema si incarica di (ri)mettere in scena il nodo irrisolto, per scioglierlo e restituire all’immaginario la possibilità di un “dopo”, di un punto zero dal quale smettere di voltarsi indietro. I cineasti della nuova generazione tornano sempre al regime, facendosi portavoce di un’esigenza nazionale e confrontandosi con temi sovra-individuali.
Una corrente filmica di particolare rilevanza è costituita da pellicole ad ambientazione dittatoriale, nelle quali i registi palesano l’esigenza della sutura scoprendo il corpo della storia e tornando a inciderlo, per meglio curarlo. L’ossessione per la ricostruzione dei fatti domina narrazioni collettive nelle quali il singolo – in stretta correlazione alla filosofia del Partito Romeno dei Lavoratori (divenuto, sotto Ceaușescu, Partito Comunista Romeno) diegeticamente imperante – è schiacciato dalla storia, fagocitato nel proprio pensiero individuale da movimenti che si compiono ineluttabili sopra la sua testa.
In Portrait of the Fighter as a Young Man (Portretul Luptatorului la tinerete, 2010) Constantin Popescu documenta, con tanto di metodiche indicazioni temporali e geografiche, le azioni compiute dalla Garda de Fier – organizzazione paramilitare nazionalista e antisemita guidata in quel periodo da Gavrila Ogoraru – tra il 1950 e il 1957, anno del suo sterminio da parte dell’esercito comunista. Con esattezza filologica, il regista mette in scena il peregrinare delle pattuglie nei boschi, le incursioni armate, i momenti di svago di Ogararu e dei suoi fedeli, alternandoli a squarci sui deliri repressivi del governo stalinista di Gheorghe Gheorghiu-Dej in forma di interrogatori e torture ai danni di qualunque pensiero divergente. Il dilemma etico sulla violenza come risposta alla coercizione governativa affiora a più riprese, senza che l’autore adotti una posizione univoca. La rappresentazione mimetica della storia riflette la palese urgenza di chiarezza, scontrandosi inevitabilmente con l’impossibilità di restituire il quadro generale degli eventi. Le scaglie di filologia che Popescu restituisce sono consapevolmente esatte ma altrettanto eterogenee e frammentarie, slegate l’una dall’altra e poco utili a costruire un insieme. I punti di sutura applicati alla ferita sono precisi, ma distanti. Qualcosa sfugge e il sangue continua a defluire, lento e instancabile, dal corpo della storia.
Altrettanto emblematico in tal senso è The Paper Will Be Blue (Hârtia va fi albastră, 2006), nel quale il regista Radu Muntean ricostruisce la notte del 22 dicembre 1989, quando i dimostranti si riversarono nelle strade di Bucarest costringendo la Militia alla resa e Ceaușescu alla fuga. La macchina da presa è mobile come quella di un documentarista, condotta a spalla tra i vicoli della capitale alla ricerca di verità, oggettivizzazione ed esattezza contenutistica. Niente musiche, nessun suono che comprometta un realismo fatto di spari, rumori statici di canali radio, brevi e frammentari dialoghi tra personaggi sfuggenti. Dalla difesa della sede della tv di Stato ai posti di blocco con manifestazioni ultraviolente, dagli autoblindo alla deriva su strade deserte alla villa del Conducător abbandonata e presa d’assalto, The Paper Will Be Blue è il ritratto frammentario di una città in stato confusionale, che grazie all’unità di tempo e luogo riesce a veicolare l’istanza realista necessaria alla cicatrizzazione della storia. Tuttavia, anche al film di Muntean manca una percezione d’insieme, quella capacità di restituire certezze tramite le quali compiere la fatidica sutura.
L’autore del film si scontra con una tra le più spinose problematiche sviscerate dalla Noul val românesc: l’impossibilità di risoluzione della questione identitaria. «Voi pensate davvero che mi piaccia Ceaușescu?». Con questa frase il miliziano Costi si congeda dalla sua pattuglia e diserta, unendosi a un manipolo di dimostranti, i quali, tuttavia, lo picchiano a sangue e lo rinchiudono in una cantina, credendolo un terrorista. Accertata la sua identità lo rilasciano, e Costi si riunisce alla pattuglia che, giunta a un posto di blocco, viene sterminata dalla stessa Militia, in quanto sprovvista di parola d’ordine.
Nella (ri)messa in scena della dittatura e della conseguente rivoluzione, manca la certezza identitaria. Soldati che sparano su altri soldati, rivoluzionari che disconoscono anche i propri alleati, in un film che si apre con la strage sopracitata e si chiude con il ritorno alla medesima scena, a dimostrazione di un girovagare nella mimesi storica che non ha portato a nulla. Alla Noul val românesc ad ambientazione retroattiva manca dunque la possibilità di attingere e, conseguentemente, restituire certezze ineluttabili, come se una forza contraria al dispiegamento della piaga dittatoriale persistesse e continuasse un’operazione metodica di occultamento del dato reale.
Nell’intero corpus filmico romeno post-1989, è un’assenza basilare a generare l’impotenza cinematografica nel rappresentare la storia nel suo insieme e il Partito Comunista Romeno nei suoi gangli fondamentali, aprendo in seguito a una decisa presa di posizione politica su quanto messo in scena. Un’assenza che impedisce la sutura storica, il pieno aggancio del singolo individuo al realismo geopolitico, oltre che quotidiano. Al cinema della Noul val românesc manca Nicolae Ceaușescu, mai rappresentato in forma di fiction e quasi mai attingendo a materiali d’archivio. Se a prima vista potrebbe apparire insolito che un cinema interamente rivolto al periodo della dittatura occulti l’immagine del Conducător, nel caso romeno ci sembra del tutto naturale, dato che ancora oggi la sua figura gode di un’ambiguità di lettura irrisolvibile. Alla luce di un momento storico tutt’altro che glorioso e di una presenza tuttora massiccia di ex fedeli ceaușeschiani negli attuali quadri parlamentari romeni, è impossibile attestare con certezza la “morte” del dittatore nell’immaginario nazionale e, analogamente, esprimere un giudizio univoco sul suo operato, condotto con una spiazzante (e sapiente) alternanza di spietatezza e condiscendenza che riverbera in letture demonizzanti contrapposte ad aperte agiografie. La figura del Conducător è talmente attuale nei discorsi, nella vita quotidiana e politica della Romania da condannare il cinema a farsi mezzo (in)espressivo, privato di una materia prima storicizzata da tenere a debita distanza in sede di messa in scena e messa a tema. La Noul val românesc gira in tondo sulla questione identitaria, confondendo l’adesione al Partito con la sua contestazione, l’appartenenza alla Militia con la diserzione, l’unità d’intenti rivoluzionari con una fedeltà a Ceaușescu tuttora molto forte. Nemmeno la frequente adozione del registro grottesco permette ai cineasti contemporanei il superamento della realtà come chiave della sua stessa riappropriazione, come solitamente avviene nelle cinematografie più consapevoli(2).
In Racconti dell’età dell’oro (Amintiri din Epoca de Aur, 2009) Cristian Mungiu assembla in sede di soggetto un mosaico a sei tessere (in forma di cortometraggi) trovando nell’assurdo e, appunto, nel grottesco l’elemento di coesione. Il frammento La leggenda della visita ufficiale (Legenda activistului în inspecție) narra di un paese di campagna nel quale vengono eseguiti gli ordini più inverosimili per preparare la visita di Ceaușescu. Ma il dittatore non arriverà, la visita sarà cancellata e, nel finale, gli abitanti del borgo saranno costretti a girare (all’infinito?) su una giostra che non ne vuole proprio sapere di spegnersi. La giostra della storia e la recita dell’assurdo, in attesa di un disvelamento filmico che, ancora una volta, non può verificarsi. Ne La leggenda del fotografo ufficiale (Legenda fotografului oficial) il Conducător è finalmente visibile, seppur soltanto in fotografia e in qualche sfuggente fotogramma di un corteo, durante la visita di Valéry Giscard d’Estaing. Ma lo scatto lo ritrae con il cappello in mano: «Il protocollo non è stato rispettato», poiché l’immagine apre all’idea che Ceaușescu compia un gesto di sottomissione al capitalismo del quale Giscard d’Estaing – e, dunque, la Francia – è simbolo. Le rotative vengono immediatamente bloccate, la fotografia cancellata, l’ordine dell’occultamento ristabilito: di nuovo, il dittatore non può essere rappresentato, sebbene al grottesco qualche licenza in più sia stata concessa.
Al realismo mimetico, seppur incompleto e incerto, delle pellicole ambientate durante la dittatura, il nuovo cinema romeno contrappone un altro modo di ritornare all’“età dell’oro”. C’è un nucleo di opere, nella Noul val românesc, che rilegge retrospettivamente il passato prossimo attraverso racconti contemporanei di memoria fugace e perdita di senso. È un insieme di pellicole che al tentativo di chiudere la ferita della storia predilige la semplice verifica della sutura originale, attestandone la putrefazione.
Se l’ambientazione di film come A Est di Bucarest (A Fost sau n-a fost?, Corneliu Porumboiu, 2006) e Medalia de onoare (Călin Peter Netzer, 2010) è contemporanea nella messa in scena, dal punto di vista contenutistico è a tutti gli effetti retroattiva. Nella pellicola di Porumboiu il conduttore Virgil Jderescu organizza un talk show nella periferica Vaslui per ripercorrere, a sedici anni di distanza, gli eventi che segnarono la rivoluzione del 1989. Il film si apre con campi totali sul degrado delle case popolari, illuminate da lampioni che si spengono in primo piano al sopraggiungere dell’alba: all’arrivo del giorno (rivoluzionario), si è spenta la luce (Ceaușescu). Se a prima vista l’associazione potrebbe sembrare ardita, lo sviluppo di A Est di Bucarest non fa che corroborare questa incertezza storico-ideologica. «Celebriamo oggi il sedicesimo anniversario della Rivoluzione Romena e i suoi momenti magici, quando i romeni vinsero la loro…». La TV cessa di trasmettere il segnale proprio quando sembra decisa la posizione anticomunista, mentre gli eminenti professori chiamati al talk show declinano l’invito, sostituiti dall’alcolizzato professor Manescu e dal confuso signor Piscoci. Il primo è pieno di debiti e chiede aiuto a un negoziante cinese (paradigma di un comunismo forse ancora necessario?), il secondo non è in grado di ricordare il passato rivoluzionario. Manescu, invece, afferma di essere stato protagonista in quei giorni, ma viene smentito da telefonate i cui contenuti manifestano altrettanti “buchi” di quelli emersi dal racconto del docente alcolizzato. L’eroe rivoluzionario è ridotto a macchietta, senza che vi sia la benché minima certezza del suo supposto eroismo. Le contraddizioni continuano, investendo anche la professione del conduttore Jderescu (giornalista o ingegnere tessile?) e gli eventi passati, fino a quando interviene in collegamento telefonico un ex membro della Securitate, le cui minacce spingono tutti, di nuovo, al silenzio. Sotto la spessa coltre grottesca, Porumboiu mette in scena la problematica ricostruzione (rielaborazione, rimarginazione) del passato prossimo. Fu vera rivoluzione? La confusione istituzionale e linguistica del presente fa eco a quella passata, e l’affermazione di Jderescu attorno a cui ruota il talk show («Ci fu un tempo in cui la gente scambiò per il sole un piccolo fuoco») presenta due possibilità di lettura altrettanto legittime: il sole potrebbe essere tanto Ceaușescu quanto la rivoluzione del 1989.
Allo stesso modo, in Medalia de onoare l’anziano Ion I. Ion riceve una medaglia al valore militare per fatti non meglio specificati, ma relativi alla lotta antinazista dell’esercito romeno nel 1944. La ricerca delle ragioni dell’investitura porta a contraddizioni e dubbi, menzogne e inefficienze burocratiche: Ion sarà decorato direttamente da Ion Iliescu, presente nei panni di se stesso, prima di vedere l’onorificenza revocata a causa di un problema di omonimia. Quando il cinema rivolge l’attenzione al passato, i conti non tornano mai, e la questione identitaria riaffiora preponderante: chi è questo Ion I. Ion, che afferma per tutta la narrazione di avere combattuto il nazismo e vede cancellata la propria memoria dall’apparato burocratico (proprio lui, che sotto Ceaușescu aveva denunciato alla Militia il figlio dissidente)? Risposte univoche, inutile dirlo, non sono possibili, e la ferita della storia continua a slabbrarsi in modo sempre più marcato, mentre nelle strade messe in scena dai due film “contemporanei” orde di ragazzini esplodono petardi e giocano con pistole laser, come a perpetuare il clima militarista della dittatura (o della rivoluzione?). Ceaușescu è ancora al centro del rimosso, frenando così ogni possibile legittimazione anche (e soprattutto) in quei titoli che vorrebbero approcciare la dittatura da un punto di vista odierno, retrospettivo, residuale.
La memoria audiovisiva – e dunque la capacità del cinema di rimettere in scena la storia – incontra nell’immagine del Conducător un “tappo” insuperabile e resistente, la cui presenza-assenza risale ai tempi della sua morte, che non fu ripresa dalla troupe incaricata a causa dell’eccessiva fretta con cui ebbe luogo la fucilazione. Riflesso pavloviano di un’arte che rifiuta di esporsi? Paradigma di una condizione esistenziale romena che persiste ancora oggi? Pietra miliare simbolica per interpretare l’endemica impossibilità di suturare quelle ferite? Forse quel primigenio gesto mancato è tutto questo, e di certo attesta quanto Ceaușescu, nell’immaginario audiovisivo romeno, non sia mai stato dichiarato morto. Estremizzando il concetto in un ultimo, folle volo simbolico, possiamo affermare addirittura che, oggi, l’unico punto di vista in grado di raccontare il dittatore sia proprio il suo, emerso con prepotenza nel documentario di Andrei Ujica Autobiografia lui Nicolae Ceaușescu – The Autobiography of Nicolae Ceaușescu (2010). Tre ore di assoluto protagonismo, di narrazione in prima persona in immagini d’archivio paradigmatiche e agiografiche, a dimostrare che «non esiste altro che la messa in scena di Sé del Potere, della sua verità»(3), perché, nell’immaginario (non solo audiovisivo), quello del Conducător è ancora un potere reale in grado di propagandarsi, raccontarsi e imporsi come fattuale.
La verità della storia, a fronte di queste considerazioni, non può che sanguinare. Mentre il cinema osserva, inerte, la ferita.
- Francesco Saverio Marzaduri, Noul Val. Il nuovo cinema romeno 1989-2009, Archetipolibri, Bologna 2012, p. 20.
- Si pensi, per esempio, ai casi italiani recenti de Il caimano (Nanni Moretti, 2006), Gomorra (Matteo Garrone, 2008) e Il divo (Paolo Sorrentino, 2008).
- Giulio Sangiorgio, Autobiografia Lui Nicolae Ceausescu, ne “Gli Spietati” [www.spietati.it].