
Due anni dopo La casa dei 1000 corpi, la società di produzione Lionsgate commissiona a Rob Zombie il suo seguito. Il regista accetta, concedendosi, però, tutte le libertà del caso. La casa del diavolo, infatti, pur riprendendo e sviluppando gli stessi personaggi, si spinge ben oltre rispetto alle intenzioni del precedente film, sia in termini di approccio narrativo che formale: esuberante, ma selvaggiamente slabbrato. Zombie cambia radicalmente registro, sovverte le regole, travalica le proprie ambizioni artistiche e rivela una volta per tutte un talento registico indiscutibile, nonché un personale gusto cinéphile in grado di frullare al contempo, tra gli altri, i fratelli Marx e Terrence Malick (La rabbia giovane [1973]), Thelma & Louise (1991), Non aprite quella porta (1974) e Gangster Story (1967), in un continuo gioco di rimandi e citazioni che mai risulta lezioso o gratuito, generando piuttosto un interessante e imprevedibile pastiche culturale.
La casa del diavolo non è un semplice sequel e non è un horror fine a se stesso, come al contrario poteva apparire La casa dei 1000 corpi. Va inteso, piuttosto, come un vero e proprio saggio sull’America, raffinato e ultraviolento, capace di guardare ai suoi miti, ai suoi eroi, alle sue paure e, ovviamente, al suo cinema da una prospettiva completamente ribaltata e, in questo senso, rivoluzionaria. Perché La casa del diavolo, prima ancora di essere un film su una famiglia di scellerati serial killer, prima ancora di essere un thriller-horror on the road, prima ancora di rappresentare il seguito di un film da cui comunque prende le distanze, è soprattutto un inno alla libertà individuale di esprimere ed essere se stessi, una provocatoria e sovversiva celebrazione della bellezza del diverso e un’ode piacevolmente blasfema, che invoca la necessità di scrollarsi di dosso le soffocanti costrizioni sociali per abbracciare un’esistenza condotta senza freni, oltre il limite, nella più totale e candida forma di spiritualità che Zombie, in una sorta di anarchico sovvertimento delle convenzioni – passibile perfino di immorale lettura – fa coincidere con l’estasi della violenza e l’elogio di una dissolutezza priva di restrizioni.
Ecco perché, in termini di libertà individuale, il riferimento principale e più coerente di La casa del diavolo è Easy Rider (1969). Al di là dei richiami più giocosamente letterali, quando ci si confronta con la famiglia Firefly e il suo concetto dirompente di libertà è possibile intravedere una variazione sul tema dibattuto da Dennis Hopper e Jack Nicholson quando, intorno al fuoco, dopo essere stati cacciati dalla bifolca clientela della tavola calda, disquisiscono sul senso di essere liberi. Come spiega Nicholson a Hopper, «libertà è paura», e questa semplice ma fondamentale verità trovava spazio ai tempi in cui lo spirito della libertà comunicava attraverso individui che anteponevano il proprio modo di vivere, di vestire e di pensare agli stereotipi indotti e pretesi dalla società, suscitando per questo timore e sconcerto al punto da essere uccisi. Allo stesso modo – e per contrappasso – Rob Zombie fa della furia omicida dei membri della famiglia Firefly la massima espressione del concetto di libertà.
Fatta tabula rasa di alcuni componenti del nucleo familiare presenti in La casa dei 1000 corpi, l’incipit di La casa del diavolo si colloca temporalmente in stretta continuità con gli eventi con cui si concludeva il primo film. Quello che però, fin dalle primissime immagini, risulta evidente è un cambio programmatico nei toni e nella gestione del sostrato narrativo di partenza: si ha l’immediata percezione che La casa del diavolo sia simile, ma anche profondamente diverso, rispetto a La casa dei 1000 corpi. È come se il cineasta rock, da consapevole demiurgo che non sente l’urgenza di rimanere fedele e coerente a se stesso, ci introducesse a una realtà che presenta sì elementi a noi familiari – a partire dai personaggi – ma allo stesso tempo si dipana su un dislivello narrativo che scorre parallelo e, quindi, non necessariamente identico.
Mentre alcune immagini di repertorio ricapitolano la serie di nefandezze di cui si sono resi protagonisti i componenti della famiglia Firefly, d’ora in poi soprannominati dai mass media “I reietti del diavolo” (The Devil’s Rejects), vediamo il deforme Tiny (il gigante Matthew McGrory, al quale il film è dedicato perché scomparso al termine delle riprese) trascinare il cadavere di una donna lungo un sentiero nella boscaglia. Giunto sul ciglio della radura che circonda la casa degli orrori, assiste di nascosto al sopraggiungere delle pattuglie della polizia determinate ad arrestare, o eliminare, i suoi parenti. A condurre le operazioni troviamo lo sceriffo John Quincey Wydell (William Forsythe), il fratello assetato di vendetta del tenente George Wydell (Tom Towles, presente anche nel corso di questo film in un breve cameo onirico), ucciso proprio dai Firefly in La casa dei 1000 corpi. Se George, in quel film, rimaneva un personaggio di contorno, John diventa ben presto una tra le figure chiave di La casa del diavolo, finendo per incarnare sulla carta il contraltare etico e giustizialista dei Firefly anche se, a ben vedere, altro non è che una presenza tanto immorale e abietta quanto quelle degli uomini a cui dà la caccia. Si può dire che lo differenzia da loro, e ne protegge le azioni ugualmente deplorevoli, il solo distintivo.
Nel corso di una prolungata sparatoria, che evoca atmosfere da assedio western in puro stile Sam Peckinpah (in primis Il mucchio selvaggio [1969]), i fratellastri Otis (Bill Moseley, che da albino in La casa dei 1000 corpi viene riproposto brizzolato e con folta barba grigia, secondo un look à la Charles Manson) e Baby (Sheri Moon Zombie) riescono a fuggire dal retro, mentre Rufus (Tyler Mane) è ucciso all’istante dallo sceriffo Wydell e Mamma Firefly (Leslie Easterbrook, che va a sostituire Karen Black) viene catturata. In questo incipit Rob Zombie introduce un elemento stilistico che tornerà sovente per tutto il film: il fermo immagine. Anziché essere un mero espediente linguistico, il freeze frame viene qui adottato con uno scopo ben preciso: diventa l’arma terroristica non convenzionale di cui servirsi per farci entrare un poco alla volta in totale empatia con personaggi che normalmente il nostro occhio e la nostra morale percepirebbero come ostili e negativi. Sono passati dieci minuti e mezzo dall’inizio dell’opera, e solo a questo punto Zombie fa scorrere i titoli di testa, secondo una prassi adottata anche in Easy Rider. Sarà un caso? Nella pellicola di Hopper ne passavano sette, di minuti, ma il principio di fondo è lo stesso.
A questo punto il film si biforca. Da una parte seguiamo la fuga sulla strada di Otis e Baby, ai quali si aggiunge poco dopo anche Captain Spaulding, il clown interpretato da Sid Haig con le parole Love e Hate tatuate sulle nocche delle mani (come l’Harry Powell di Robert Mitchum in La morte corre sul fiume [1955]), che scopriamo essere il padre naturale di Baby. Costoro si danno appuntamento presso il Kahiki Palms Motel, dove prendono in ostaggio i componenti di un complesso country itinerante facendone scempio dopo una lunga e a tratti insostenibile sessione di sevizie e umiliazioni. Dall’altra veniamo resi partecipi dei movimenti dello sceriffo Wydell, impegnato a torchiare Mamma Firefly e a seguire le tracce di sangue lasciate da Otis, Baby e Captain Spaulding. Il tutto con l’aiuto degli Unholy Two (Danny Trejo e Dallas Page), cacciatori di taglie il cui soprannome si rifà al titolo di un celebre film di Tod Browning del 1925, Il trio infernale (in originale, The Unholy Three). Nel corso di questa parte del film, Zombie trova anche il tempo di dire la sua in merito a una certa frangia oltranzista della critica cinematografica, mostrando un grottesco confronto in cui Wydell, patito di Elvis Presley, minaccia un critico esperto dei fratelli Marx chiamato a decifrare i nomi dei componenti della famiglia Firefly, ricavati da quelli di alcuni personaggi dei film dei celebri comici.
La resa dei conti finale si svolge dapprima nel bordello/strip-club gestito da Charlie Altamont (Ken Foree), il fratello afro e cocainomane di Captain Spaulding. Qui, i tre fuggiaschi trovano ristoro tra le braccia di alcune prostitute e si concedono una parentesi di droga e alcool paragonabile alla scena del cimitero in Easy Rider, salvo poi essere catturati da Wydell e dagli Unholy Two. Successivamente l’azione si sposta presso casa Firefly: lo sceriffo, accecato dalla brama di farsi giustizia, tortura Otis, Captain Spaulding e Baby prima di dare fuoco all’abitazione, quand’ecco giungere in soccorso Tiny che uccide Wydell, sancendo il culmine di una parabola circolare che prende le mosse e si conclude di nuovo proprio nella dimora dei Firefly.
In linea teorica La casa del diavolo avrebbe potuto terminare anche così, con l’apparizione salvifica di Tiny a garantire la sopravvivenza della famiglia disfunzionale e porre idealmente le basi per un terzo atto della saga. Ma è evidente quanto a Zombie non interessi protrarre a tempo indeterminato le gesta dei suoi personaggi. Piuttosto vuole farli entrare nella leggenda, consacrarli nell’empireo delle figure mitiche della storia del cinema americano. Perlomeno, in quella sua personale. Così, in un epilogo che genera nello spettatore l’effetto straniante di accorgersi di avere simpatizzato definitivamente per un gruppo di sadici serial killer, trasformati da Zombie in eroi, Otis, Baby e Captain Spaulding si gettano on the road tra le braccia della morte, un posto di blocco della polizia da cui deflagra una pioggia di proiettili. E alla fine basta poco per renderli immortali: una vecchia Cadillac decappottabile, il sound di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd a commento della sequenza e la sofferenza sui loro volti congelata in un ultimo, epico fermo immagine.
Cast & Credits
Titolo originale: The Devil’s Rejects; regia: Rob Zombie; sceneggiatura: Rob Zombie; fotografia: Phil Parmet; scenografia: Anthony Tremblay; montaggio: Glenn Garland; musiche: Tyler Bates; interpreti: Sid Haig (Captain Spaulding), Bill Moseley (Otis Firefly), Sheri Moon Zombie (Baby Firefly), William Forsythe (John Quincy Wydell), Ken Foree (Charlie Altamont), Matthew McGrory (Tiny), Leslie Easterbrook (Mother Firefly), Danny Trejo (Rondo), Tom Towles (George Wydell), Ginger Lynn (Fanny), Dallas Page (Billy Ray Snapper); origine: Usa/Germania, 2005; durata: 107’/109’ (unrated director’s cut); home video: dvd e Blu-ray Eagle Pictures; colonna sonora: The Devil’s Rejects, Universal.