Fra le pagine d’America
Gianpiero Mattanza
Nei primi anni dell’Ottocento, le ultime tracce della nebbia rivoluzionaria oscurano l’Europa: l’uomo è ancora una volta carnefice di se stesso e il collasso della civiltà occidentale non è più così distante. Oltreoceano, un gruppo di coloni avventurosi cerca di vivere una nuova esperienza comunitaria, evitando di ripetere gli errori strutturali commessi dagli europei. Un abisso nero e gelido separa un Vecchio Continente ormai esausto su tutti i fronti dalla neonata (e sazia del sangue sacrificale dei caduti) ex colonia inglese. Se un uomo dell’epoca avesse osservato in rapida successione i diversi elementi delle due realtà, così distanti tra loro, avrebbe notato vistose differenze nell’assetto sociale, nella gestione del potere, nell’aspetto esteriore e nella forma mentis degli abitanti. Ma non gli sarebbe stato difficile individuare un fenomeno singolare: i sedicenti “americani” sembravano aver sviluppato – in modo stranamente complementare – tratti psicologici e sociali in Europa erano rimasti in ombra. Il modello europeo, lungi dall’essere smaltito completamente, vive ancora nei coloni, seppur deformato e riconvertito dalle sirene di una “nuova era”. Nonostante la nomea di uomini d’azione, pragmatici e dediti alla difesa armata della propria libertà dalle vecchie sfingi del potere d’oltreoceano, gli americani non perdono il vizio dell’arte. Come ogni rappresentazione, mimetica o meno, essa si nutre di modelli. La letteratura non è esente da questa regola: inoltre, essa è forse la forma artistica più legata all’identità culturale di un popolo, a causa del collegamento biunivoco tra identità etnica e lingua, che crea (o dovrebbe creare) un’unità superiore.
La letteratura americana delle origini si mostra da subito come un perfetto esempio di prodotto intellettuale forgiato “a distanza” su un modello ben preciso, quello europeo. Partendo dall’“autopercezione”, dalla consapevolezza cioè di essere rappresentanti di una neonata cultura, potenzialmente dirompente a livello politico e sociale, gli autori statunitensi rivendicano, forse con una dose di nascosto “rancore” intellettuale – l’ammirata stizza del bimbo che prova affettuosa invidia della forza del fratello maggiore – una certa continuità con la tradizione europea. Il Nuovo Mondo offre ai primi autori “contemporanei” – siano un Washington Irving, un Henry Wadsworth Longellow o un Edgar Allan Poe, per quanto diversi in termini di qualità – una vera e propria “tabula rasa” su cui innestare parte dell’immaginario collettivo europeo per esplorare le spaventose potenzialità di quella che, a tutti gli effetti, si dimostra come consapevole creazione di una storia nazionale. Laddove gli elementi per crearla scarseggiano in modo vistoso.
Le prime espressioni di una letteratura matura e consapevole sono la trasposizione, nelle misteriose atmosfere dell’allora in gran parte sconosciuto Nuovo Mondo, di credenze popolari europee. Una sorta di “furto” di stilemi propri del Romanticismo, portato alle estreme conseguenze proprio quando in Europa si è già andati “oltre”.
Il pendolo oscilla: con le nuove generazioni fanno capolino anche nuovi autori, che vogliono illuminare con il proprio entusiastico contributo l’appena iniziata storia letteraria statunitense. Giunta è l’ora, come un tempo in Europa, dell’immaginosa ingenuità dei grandi intelletti che osservano il mondo e ne traggono commossa ispirazione: su tutti, Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau. Nella dimensione atemporale placida e mistica della vita nei boschi, i due si dichiarano consapevoli della novità letteraria che inaugurano, rispettivamente con il saggio Natura e con il romanzo Walden. La giovane, inquieta – eppure così antica e maestosamente serena – America diviene la Magna Mater nel cui ventre nascondersi, come in un antico rituale di rinascita. Una nuova consapevolezza sembra sorgere, nella simbiosi quasi panica del nuovo autore con la natura. Inizia a raffreddarsi quella sensazione di inferiorità culturale verso un mondo antico di cui si conserva solo uno sbiadito ricordo: anche le sterminate e boscose pianure del West sussurrano ora la via. Gli autori USA, con il coraggio dei pionieri, scoprono la propria potenziale originalità e cominciano a esplorare terreni nuovi e incontaminati.
Stelle e strisce suonano oggi, nella decrepita e ancillare Europa, come “novità”. La bandiera che tanto ha caratterizzato il Novecento è il luogo metafisico entro cui, secondo alcuni, la pesante armatura culturale imposta dal Vecchio Continente crolla, rivelandosi arrugginita e corrosa dal tempo. Il Nuovo Mondo è anche il luogo in cui vecchie storie si mescolano tra loro e con narrazioni nuove, dando vita a risultati inediti. La sorella minore, ribelle e insofferente, è tuttavia consapevole che, seppur saltuariamente e con stizzoso orgoglio, deve ancora fare affidamento sulla maggiore, pensierosa e vissuta, esausta nonostante l’aspetto austero. Ma, si sa, la competizione a volte gioca brutti scherzi e rischia di separare ciò che prima sembrava unito da un legame inscindibile.
La condizione adultera tratteggiata con sapienza da Nathaniel Hawthorne ne La lettera scarlatta è forse la migliore immagine archetipica della condizione statunitense. Fuggire dalla propria casa, cercando di “fare con la propria testa”, trovando nuovi compagni d’avventura e nuovi amori. Seguire una propria identità persa nel tetro, infinito mare dell’indefinito, come in Moby Dick di Herman Melville. La balena bianca è simbolo di uno spettro seguito per una vita e mai catturato, se non in punto di morte. L’abissale psicologismo di alcuni autori europei viene forse addirittura anticipato da Melville in merito alla “poetica del fallimento”, declinata attraverso quegli sterminati spazi oceanici che raffigurano, in fin dei conti, l’incertezza dell’esistere. Il rapporto con l’Europa è un ormai amaro confronto/scontro a distanza, nella consapevolezza della propria insanabile, reciproca diversità.
Durante l’età contemporanea – potremmo dire, nella modernità – sono spesso pochi, fortuiti interventi d’autore a cambiare la direzione culturale di una nazione. Le Foglie d’erba di Walt Whitman disegnano il prototipo del nuovo intellettuale statunitense: serenamente vagabondo, anticonvenzionale, libero. Versificazione apparentemente lontana dai vincoli formali, volontario stravolgimento della struttura poetica, uso di slang e totale assenza di un orizzonte “oggettivo” del poetare: questa potrebbe essere la sintesi strutturale, dalla comparsa dell’opera di Whitman, di gran parte della letteratura americana.
Esiste ormai, a quest’altezza cronologica e dopo simili risultati letterari, un’inversione di tendenza nella percezione che la letteratura americana ha di sé. E tutto ciò non è indolore: a trattare diffusamente nelle proprie opere – anche se sotto le mentite spoglie di racconti divertenti e formativi – la lacerante conflittualità americana, interna ed esterna, è Mark Twain: la sua vicenda biografica e letteraria è infatti somma del dramma identitario statunitense, metafora delle inaudite vicende che muovono la coscienza di un popolo in parte ancora sconosciuto a se stesso. Le avventure di Huckleberry Finn sviluppano riflessioni di grande consapevolezza linguistica: ad esempio, la chiara volontà di Twain di raggiungere il realismo attraverso la mimesi con il parlato della variegata umanità del profondo Sud.
Ma il Novecento già albeggia all’orizzonte. Se prima era solo un sentore, l’opinione pubblica statunitense a questo punto ha perso l’atavica ingenuità delle origini e ha ben chiaro il peso politico della propria nazione nei confronti dell’Europa occidentale e della porzione di mondo da essa controllato. Ben consci di questo, i principali scrittori del periodo sono spesso tutt’altro che inseriti nei canoni di una monolitica esaltazione nazionale. Un simile atteggiamento, spesso di amaro contrasto con la realtà “ufficiale” di una potenza in continua crescita, si tramuta in una nuova libertà di interpretazione e rappresentazione della quotidianità firmata USA.
In America si parla di Lost Generation per indicare i giovani che hanno vissuto, magari al fronte, la Prima Guerra Mondiale e che non riescono ad andare di pari passo con il “progresso”, con quella manifestazione alienante e disumana che siamo soliti definire “modernità”. Francis Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway sono probabilmente i migliori esponenti di una nuova consapevolezza, di un novello pessimismo nei confronti della società. I protagonisti delle loro opere sono “eroi” nel senso europeo, pseudo omerico – ben diversi dagli antieroi decadenti che popolano i romanzi del Vecchio Continente – ma si scontrano con un diverso linguaggio e un differente sistema di valori: quelli della meccanica, della catena di montaggio e della metropoli. L’Europa, con i suoi cliché letterari, è ormai lontana anni luce dalla sensibilità made in USA dei nuovi autori.
L’esplosione geografica, orizzontale e verticale, delle metropoli americane, lo spaesamento degli uomini comuni e degli intellettuali verso tutto questo induce alla ricerca di nuovi spazi letterari. La destabilizzazione portata dalle guerre, ad esempio, spinge molti scrittori a un’aspra critica nei confronti del “sogno americano”. Ezra Pound è la figura di poeta-pensatore più consona a definire lo scarto tra la sclerotica ideologia al potere e un pensiero creatore. Autore, patriota, forse il più aspramente criticato del XX secolo, Pound lascia vivere in sé lo spirito teso alla libertà dei Padri Fondatori, a suo avviso traditi da politicanti sottomessi a banche e grandi cartelli del potere economico/politico.
La consapevole autarchia intellettuale è ormai compiuta: gli autori statunitensi non hanno più bisogno di punti di riferimento, poiché consapevoli di essere a loro volta nuovi modelli per gli altri. Si compie il passo che definisce la maturità letteraria di una nazione: lo stile e l’oggetto della ricerca vengono trovati nella vita, nelle aspirazioni e nei fallimenti del popolo stesso, senza più bisogno di prestiti. Giunta la maturità, tuttavia, sta per compiersi il paradosso di una letteratura nazionale senza nazione.
Le guerre generano come risultato “sociologico” lo spostamento di grandi masse dal Vecchio Continente al Nuovo. Non emigrano negli USA solo centinaia di migliaia di individui pronti a tutto pur di sfuggire dalla miseria dei Paesi d’origine (Italia ai primi posti), ma anche tutta quella congerie di oppositori politici e gruppi etnici perseguitati che in Europa rischiano la vita.
L’America, già terra di novità, si fa garante della libertà d’espressione: così facendo, diventa via via il crogiolo di culture anche diversissime tra loro. Si va affermando quel “melting pot” che da allora è il marchio di fabbrica – e, per molti, stigma – della cultura statunitense.
In questo clima di libertà intellettuale e mescidanza etnica e religiosa vanno affermandosi forme letterarie sempre più slegate dalle tematiche trattate, ad esempio, dalla Lost Generation. È tempo di un’altra generazione, chiamata Beat. Inseguendo il sogno già whitmaniano di una vita di vagabondaggio e poesia, scrittori come Jack Kerouac e Allen Ginsberg rinnovano per primi l’archetipo dell’autore slegato dalla forma e dalla preoccupazione estetica, per far divenire poesia la propria stessa vita, fatta di eccessi e costellata di vicende “al limite”. La volontaria rottura dei canoni estetici è in questo caso finalizzata alla dissoluzione della morale comune, anche qui in totale contrasto con le necessità dei “nuovi giovani”. Proprio lo scontro generazionale è ciò che maggiormente caratterizza gli anni Cinquanta e Sessanta: Jerome David Salinger, con Il giovane Holden, si inserisce in questa temperie culturale analizzando l’alienazione dei nuovi americani.
L’intellighenzia ormai ibrida dell’America anni Sessanta è ferocemente opposta allo stile di vita dell’american middle class: se l’opera di John Dos Passos ne è un esempio, è tuttavia Charles Bukowski a portare alle estreme conseguenze l’atteggiamento autodistruttivo del cittadino che non riesce a tenere il passo dell’avanzare della metropoli. Lo scrittore in questo caso è un alienato, un diverso, quasi un reietto che vive la città come il coacervo delle bassezze umane più turpi, ma non ne può fare a meno perché di tutto questo si nutre.
Nel vortice di intimismo, spesso di autentica patologia decadente – in senso tutt’altro che europeo – che percorre le più recenti esperienze letterarie americane, si fanno vive anche voci controcorrente, che tentano di riordinare, spesso con amara ironia, il puzzle postmoderno che gli Stati Uniti incarnano. Ed ecco che autori come Don De Lillo e Philiph Roth, esempi viventi della ormai multietnica realtà americana, creano opere entro cui l’uomo comune viene reinserito con nuova dignità nella cornice marcescente e postmoderna di una nazione – nonostante la creazione dei cosiddetti “miti americani” – ormai priva di identità e disorientata come mai prima d’ora.
Nella seconda metà del Novecento e nel primo decennio del terzo millennio sono ormai gli americani, assai potenti economicamente e politicamente, a dominare il “gusto” mondiale. Spesso con opere di grande qualità letteraria, che definiscono realmente uno “stile americano” con tutti i crismi, di cui molti tra gli scrittori di tutto il mondo occidentalizzato si fanno imitatori.
L’Europa, salvo rari casi, è ormai del tutto soggiogata alla forma mentis di stampo americano e in campo artistico non ha più una capacità propulsiva propria. Parassita di un corpo dalle alchimie indecifrabili perché legate alla breve ed esplosiva storia degli Stati Uniti, si limita a imitare pedissequamente tic e cliché di un’intellighenzia dalle molteplici sfaccettature etniche, ma che ha raggiunto un’unità di intenti e di coesione ideologica che è riduttivo definire monolitica. Tanto che oggi si può parlare non solo di American way of life, ma anche di American way of thought. Nel bene e nel male, ovviamente.
In questi termini, discutere oggi di “letteratura statunitense” è forse scorretto e anacronistico, in quanto le voci più autorevoli di tale ambito di americano hanno solo il passaporto. Probabilmente, sarebbe più corretto discorrere di “letteratura del melting-pot statunitense”, identificando con questo l’ormai diffusa pluralità di provenienze geografiche alla base del fenomeno. Etichetta che forse potrà non piacere ai cattedratici abituati a classificazioni più specifiche e “chiuse”, magari ancora legate a una visione “nazionale” dell’espressione letteraria, ma che riassume l’originalità e, spesso, la qualità con cui gli scrittori “americani” – le virgolette a questo punto sono obbligatorie – spazzano via ogni definizione “europea” di prodotto di stampo artistico.