
Intesa come genere, o, forse meglio, movimento letterario, la fantascienza si autodetermina nel corso dell’Ottocento come esito dell’incontro tra la maniera gotica e fantastica del secolo precedente, inaugurata dal Castello d’Otranto di Horace Walpole, e la riflessione sociopolitica sugli esiti della rivoluzione industriale nata in area anglosassone – la quale, non a caso, resterà, con la sua filiazione statunitense, terra di elezione della narrativa fantascientifica, fino alla modernità. Allo stesso tempo, essa possiede antenati molto più antichi. Potremmo infatti risalire a Luciano, in particolare alla Storia vera, col suo racconto fantastico di un viaggio sulla Luna e una guerra interplanetaria, e addirittura al Genesi, con la sua storia di creazione nutrita di dettagli concreti. Attraverso i maestri ottocenteschi Shelley, Verne e Wells (gli ultimi due, in realtà, attivi anche nel secolo seguente), nella sua specificazione e articolazione novecentesca, che trova il suo momento più alto e paradigmatico attorno alla metà del secolo, in quella che possiamo chiamare la sua “età dell’oro”, la fantascienza attinge a quello che Jung chiamava “materiale visionario” della creazione, contrapposto a quello più semplicemente psicologico. Mentre quest’ultimo tratta delle esperienze ordinarie dell’uomo, come amore, passione e destino terreno, il primo ha per oggetto eventi, figure e immagini trascendenti il quotidiano, capaci di stravolgere la sensibilità e la normale dimensione percettiva, «ai limiti del desiderio umano» (N. Frey). Così ne parla Jung in Psicologia e poesia: «Il tema o gli eventi che formano il contenuto della rappresentazione artistica non sono più materia conosciuta; la loro essenza ci è estranea e sembra provenire da un remotissimo sfondo di epoche preumane o da sovrumani mondi di luce o di tenebra; l’argomento ci sembra un evento primigenio al quale la natura umana rischia di soggiacere, spossata e sbigottita».
Tale descrizione, poetica e psicanalitica insieme, si attaglia naturalmente al materiale del mito classico, nelle sue varie declinazioni narrative ed epico-poematiche. Ma è evidente che il filone visionario, in quanto espressione dell’inconscio collettivo e dei suoi mitologemi, trova altresì successive espressioni, come la queste medievale o il racconto agiografico. Grazie alla sua capacità di muoversi con grande libertà nel tempo e nello spazio, la fantascienza è il terminus ad quem di questo percorso. Libera dalle angustie della cronaca in cui spesso cade certa narrativa mainstream, essa affronta una gamma vastissima di tematiche, utilizzando una lente deformante per ottenere un punto di vista originale rispetto ai fondamentali motivi e interrogativi umani, che rappresentano il contenuto della grande arte.
I grandi nuclei immaginifici che sostanziano il mito trovano, dunque, una re-visione negli autori più consapevoli della fantascienza. Il segno interpretativo, psicologico, sociale e persino politico – ammesso e non concesso che certe narrazioni mitiche possano ricevere a posteriori una lettura di quest’ultimo tipo – potrà, beninteso, essere diverso e opposto a quello classico, anche in ragione delle specificità formali: il romanzo, da quello di valenza borghese dei tempi di Hegel ai più recenti approdi sperimentali, possiede una plasticità e una versatilità uniche, che lasciano ampio spazio alla rilettura, alla satira, a incursioni e intersezioni, spesso ironiche, tra generi differenti.
Col requisito minimo della verosimiglianza fantascientifica si ripropongono allora vicende di ampio respiro attinenti a temi e mitologemi come creazioni e catastrofi, eroi e discese agli inferi, età dell’oro e metamorfosi. È di quest’ultimo aspetto che offriremo un breve approfondimento.
Agli inizi stessi della letteratura universale, le immagini e le storie attinenti a una metamorfosi s’intersecano con i miti della creazione – a dimostrazione del fatto che i grandi mitologemi di cui sopra si presentano spesso intrecciati e sovrapposti, forse proprio per la natura magmatica e insieme strutturata dei materiali dell’inconscio collettivo. Nella leggenda biblica l’uomo viene creato con “polvere del suolo” e la donna, successivamente, da una sua costola. Nella storia greca del diluvio (altra connessione archetipica con figure della catastrofe) Deucalione e Pirra, gli unici superstiti, creano nuovi uomini e donne lanciando delle pietre dietro alle proprie spalle. In questi racconti e in altri consimili – pensiamo, per esempio, al Popol vuh dei Maya – la materia inerte ha in sé la potenzialità della vita animale, anche se il soffio vitale è sempre dono di un creatore preesistente e autonomo.
Del tipo più canonico di metamorfosi, ovvero la trasformazione di un’entità già animata in un altra, l’esempio classico è il dio Proteo (da cui il termine “proteiforme”), essere marino ambiguo e sfuggente che assume le più diverse sembianze per non formulare le profezie a lui richieste: le trasformazioni di Proteo sono, paradossalmente, affermazioni d’identità, nell’accettazione implicita dell’eterno divenire delle cose.
Nella programmatica raccolta poetica in quindici libri di Ovidio, le Metamorfosi, le trasformazioni sono forme della punizione divina, come nel caso di Licaone, padre scellerato trasformato in lupo, o Aracne, mutata in ragno per aver osato sfidare Minerva nella tessitura. In altri casi, la metamorfosi interviene a salvare una creatura da un destino peggiore: si pensi a Dafne, che il padre Peneo trasforma in pianta d’alloro affinché possa sfuggire alle pretese sensuali di Apollo. Gli dèi, invece, assumono spesso sembianze differenti per soddisfare capricci amorosi: così Zeus si tramuta in cigno per sedurre Leda, e in toro per possedere Io. Nell’ultimo libro del capolavoro ovidiano, l’archetipo viene infine piegato dal poeta a esprimere una valenza misterica e orfica: la metamorfosi più profonda cui è soggetto l’uomo è la reincarnazione, il cambiamento di veste corporea compiuto dall’anima durante il ciclo delle esistenze.
Nemmeno mancano episodi metamorfici nell’ambito dei grandi poemi epici: la maga Circe trasforma a suo piacimento gli uomini in animali – i compagni di Odisseo, in particolare, in porci – forse in segno del suo disprezzo per il sesso maschile, mentre nell’Eneide Polidoro, trafitto a tradimento da una selva di frecce, diviene parte del cespuglio fiorito sopra il suo corpo (1).
La letteratura tardoantica offre, infine, l’ampio e affascinante esempio dell’Asino d’oro di Apuleio, storia allegorica di una trasmutazione uomo-asino, animale che rappresenta la degradazione morale più assoluta. La forma umana di Lucio, il protagonista, potrà essere ritrovata solo attraverso numerose e dolorose esperienze di purificazione (allegorismo che troverà un’eco, lontana nel tempo ma non nello spirito, nel Pinocchio collodiano).
In età medievale e protomoderna il tema viene ripreso soprattutto in ambito favolistico e leggendario. L’uomo che, indipendentemente dalla sua volontà, si trasforma in animale (generalmente, tra i più pericolosi) è protagonista di una degradazione che lo segna agli occhi di tutti come zizzania da estirpare, vergogna da cancellare. Non bisogna però trascurare la tipologia del “principe ranocchio” o de “la bella e la bestia”, in cui la trasformazione in mostro deriva da una colpa e il recupero della forma primitiva avviene solo quando la creatura mostruosa trova chi sia disposto ad amarla in quella condizione.
Arriviamo, così, alla modernità e alla riproposizione del mitologema nelle agili e potenti forme della narrativa. Prima di approdare alla fantascienza tout court, esiste naturalmente una fase di appropriazione del tema da parte di un fantastico di volta in volta perturbante, orrorifico o surreale. A quest’ultima branca appartengono Alice nel paese delle meraviglie (1865) e il suo seguito, Dietro lo specchio (1871), capolavori del reverendo Lewis Carroll in cui Alice, in base alle instabili leggi fisiche del paese delle meraviglie, diventa minuscola, passando così attraverso le serrature delle porte, e poi grandissima, creando un formidabile scompiglio nell’universo a rovescio in cui è stata gettata. Il tema del rimpicciolimento/ingrandimento appare sfaccettato e complesso, soprattutto in merito alle differenti dinamiche relazionali instaurate da Alice a seconda delle proprie dimensioni (2).
Per quanto attiene al fantastico cosiddetto inquietante, dobbiamo fare i conti con Dottor Jekyll e Mister Hyde (1883), il meraviglioso romanzo breve di Robert Louis Stevenson, steso in tre giorni e riscritto in altrettanti dopo che Fanny, la compagna dello scrittore, aveva bruciato il manoscritto, terrorizzata dal suo contenuto. Pur se ascrivibile genericamente a tematiche e intenti orrorifici, l’opera appare al confine con la fantascienza, in quanto il cambiamento di natura tra Jekyll e Hyde è prodotto da una mistura realizzata in laboratorio. Il nobile scopo del dottore – permettere alle due nature coesistenti nell’uomo di esprimersi indipendentemente – rivela la propria fallacia di fronte agli orrendi crimini commessi da Hyde. La doppiezza umana, con i suoi problemi e le sue contraddizioni, deve restare tale, se si vogliono evitare guai peggiori.
Anche la vampirizzazione può essere considerata come una forma metamorfica. Nella versione storico-folclorica resa celebre dal romanzo di Bram Stoker, Dracula il vampiro (1897), quest’ultimo appare come l’esito di una metamorfosi soprattutto spirituale, che conduce alla specifica e sofferente immortalità dell’essere – spezzata solo dal doloroso ma liberatorio rituale del paletto piantato nel cuore (tema che ha ricevuto, tra le altre, la splendida riproposizione fantascientifica di Io sono leggenda, del 1954, di Richard Matheson, a sua volta traslato in un’ottima versione cinematografica, con l’interpretazione di Will Smith).
Praticamente contemporanei al capolavoro di Stoker sono due tra i celebri romanzi del sommo maestro della fantascienza, Herbert George Wells. Ne L’isola delle bestie (1896) il dottor Moreau cerca di applicare a svariati animali le caratteristiche fisiche e psichiche dell’uomo, non ottenendo che una galleria di ibridi i quali, dopo una breve parentesi di ambigua vitalità intellettuale, ripiombano nella loro bestialità originaria (la storia andrebbe letta e meditata da quegli scienziati che, in laboratori ai limiti della legalità, giocano alla manipolazione genetica, su uno sfondo morale quantomeno vago…). Anche il protagonista de L’uomo invisibile (1897), il dottor Griffin, è uno scienziato che sperimenta su se stesso l’invisibilità, ovvero la totale penetrabilità della luce in un corpo sottoposto a un particolare trattamento chimico. Ma il “non apparire” diventa un “non essere”, una privazione di dignità, tanto che Griffin viene sottoposto a una spietata caccia all’uomo. L’opera è allegoria dell’incomunicabilità interpersonale ma altresì del moderno e funesto primato dell’estetica e del look sulle qualità interiori.
Anche la metamorfosi licantropica appare suscettibile di una plausibile analisi (para)scientifica, come avviene ne Il figlio della notte (1949), vertice forse assoluto della produzione di Jack Williamson, uno dei maestri statunitensi della fortunata età dell’oro di cui sopra. Attraverso una cupa e misteriosa vicenda romanzesca, i licantropi vengono collocati a pieno diritto nell’albero genealogico delle forme animali, come protagonisti di un’arcana e mortale battaglia contro il genere umano. Ma la natura del lupo rivela all’insoddisfatto protagonista un’affascinante promessa di felicità, un sogno naturalistico raggiungibile attraverso una semplice metamorfosi…
Un tema proprio alla fantascienza della seconda metà del Novecento è quello delle mutazioni e dei mutanti, alimentato naturalmente dalla “paura atomica” posteriore a Hiroshima e Nagasaki. Nelle sue espressioni più riuscite, il mutante diventa metafora del diverso, un’entità estranea alla comune umanità e vista in modo sospettoso e ostile, come nel terribile I trasfigurati (1952) di John Wyndham, in cui una semplice mutazione – come l’avere un piede con sei dita, in seguito alle radiazioni atomiche – è una vergogna da nascondere, se non si vuole incorrere nel dileggio e nelle punizioni imposte da un sistema sociale basato su una continua “caccia alle streghe”.
Ma la mutazione diviene anche prefigurazione, se non sinonimo, di una trasformazione positiva del genere umano. Nel geniale Nascita del superuomo (1953), Theodore Sturgeon descrive l’incontro di cinque ragazzi, ognuno caratterizzato da un difetto fisico o mentale, ma anche da peculiari doti psicologiche, come la telepatia o la capacità psicocinetica. Essi si riuniscono in una Gestalt capace di orientare tali straordinari poteri al benessere complessivo del genere umano anziché a una possibile acquisizione di potere sociale o a mire distruttive sul piano materiale o mentale.
A conclusione di questa breve carrellata vediamo stagliarsi i romanzi catastrofici di James Ballard, il maestro inglese della new wave, che, nella sua vasta produzione, condusse un’aspra polemica contro la società dei consumi, insieme alla ricerca di nuovi stilemi e forme per le sue narrazioni sarcastiche e apocalittiche. In Deserto d’acqua (1963) una nuova era tropicale, oltre a trasformare l’ambiente, facendone il regno d’iguane e alligatori, induce nell’umanità una sottile mutazione psicologica: rinunciando a ogni forma di consorzio sociale, isolati e persi in un ancestrale sogno biologico, i sopravvissuti finiscono per fuggire, ciascuno per conto proprio, nel cuore della foresta neogiurassica, in una regressione che è un inevitabile adattamento alle mutate condizioni ambientali.
Il tema della metamorfosi appare dunque come un poliedro piuttosto sfaccettato, costituito da molteplici mutazioni dettate da nature ibride in senso fisico nonché psicologico, ma anche – e sempre più nel mondo odierno, alle soglie di una catastrofe ambientale – da un’esigenza evolutiva e adattativa di fronte alla quale le vecchie categorie e classificazioni perdono senso, lasciando il passo all’uomo nuovo, dotato di compassione e coscienza cosmica.
- Restando sempre in tema di metamorfosi, la vicenda sarà ripresa da Dante nel canto XIII dell’Inferno, col personaggio di Pier delle Vigne. Né bisogna dimenticare il pezzo di bravura dantesco del canto XXV, con la descrizione di mutazioni e confuse ibridazioni di uomini e rettili: «Ohmè, Agnel, come ti muti! / Vedi che già non se’ né due né uno».
- L’immagine sarà ripresa in almeno due eccellenti romanzi e conseguenti film, Radiazioni BX distruzione uomo (1956) di Richard Matheson, in cui un uomo, colpito da misteriose radiazioni, rimpicciolisce in modo lento ma inesorabile, finendo a combattere coi ragni del giardino di casa, e Viaggio allucinante (1965) di Isaac Asimov, in cui un’équipe di scienziati viene ridotta e iniettata, protetta da una capsula, all’interno di un corpo umano, per intervenire con maggiore efficacia su un ematoma cerebrale.