La magnifica ossessione autobiografica. Antonio interroga Bido

Antonio Bido
Antonio Bido n. 11/2019
La magnifica ossessione autobiografica. Antonio interroga Bido

 

 

Rileggendo l’autobiografia scritta nel 2004 per il mio sito (www.antoniobido.it, ndr), mi è venuto d’un tratto da chiedermi a che cosa sia dovuta questa “ossessione” autobiografica! Ossessione perché oggi, nel 2019, sto completando una nuova autobiografia, però questa volta filmata, ovvero per immagini. Sono sempre io che mi racconto, che mi riprendo, che intervisto amici, parenti e colleghi; io che mi guardo pensare, specchiandomi nell’altro a cui, inevitabilmente, le fotografie e la ripresa digitale (una volta sarebbe stata la pellicola) mi rimandano. Sono io, in definitiva, che non riesco a smettere di rivedere, ricostruire, in definitiva ricordare il mio passato (con un pizzico di “memoria creativa”!), faticando a lasciarlo andare e per questo desiderando condividerlo con chi, bontà sua, avrà la curiosità di affrontarlo. Per conoscermi meglio? Per capire chi sono e sono stato e il perché di certe scelte?

Ecco, le scelte. In realtà nella mia vita ce n’è stata una sola di scelta, determinata, determinante: quella di fare cinema come regista. Tutto il resto è venuto di conseguenza, prima fra tutte la necessità di migrare a Roma e lasciare amici, parenti e biciclette a Padova.

Fino a poco tempo fa, forse proprio fino a quando ho cominciato a filmare e dunque a (ri)vedere la mia vita con gli occhi del filmmaker, ho ragionato come se le scelte successive fossero il risultato di quella scelta primaria, senza rendermi conto, invece, che prima ancora di quella scelta primaria c’era la mia natura, anarcoide, indipendente, autonoma e refrattaria a compromessi e ipocrisie.  La natura di un regista che avrebbe voluto fare tutto da solo, come nei film sperimentali in Super8 della mia giovinezza e negli ultimi videoclip musicali della maturità. Ovviamente, non essendo possibile fare i film da soli, i compromessi ci sono stati, ma ridotti al minimo; quando ho allargato le maglie della rete, quello che ho realizzato non mi ha pienamente soddisfatto. E quando ho smesso di fare cinema e ho optato per i documentari è stato perché mi ero stufato di proporre cose mie, di un certo tipo, per sentirmene proporre altre, di ben altro tipo1.

L’unico vero rimpianto, dovuto a una decisione scellerata, è quello di non aver accettato la proposta del produttore Ermanno Donati di fare un altro giallo, ma a ben pensarci anche quella è stata una scelta legata alla mia formazione culturale (allora molto snob, tipo “piccolo lord”, come simpaticamente e azzeccandoci mi ha definito Stefania Casini!) e soprattutto al mio carattere: non ho mai accettato che qualcuno mi imponesse qualcosa e, sbagliando, quella volta ho vissuto la proposta come un’imposizione. Assurdo, ma umano. Come si suol dire, ciascuno è artefice del proprio destino. E questa è una grande verità.

La passione per il cinema è nata con me e si è sviluppata dentro di me indipendentemente dalla famiglia. Nessuno dei miei s’interessava di cinema, così come nessuno ha agevolato in qualche modo la mia carriera. Film e lavori realizzati sono stati una conquista, film e lavori rifiutati (per esempio per la televisione) sono stati da un lato il risultato di una valutazione di comodo (prediligere il certo all’incerto), dall’altro – ma è solo un’ipotesi del momento – l’orgoglio di potermi “vantare” di non avere realizzato prodotti seriali (come allora erano, secondo me, le serie – appunto – tv). Devo aggiungere che in questo modo mi sono pure risparmiato la delusione che alcuni colleghi mi hanno confessato di avere provato, dovuta all’essere stati in un certo senso costretti, per “vivere”, a fare televisione (anche di successo), ma sempre con il cuore rivolto al cinema. Oggi per fortuna, con la produzione di serial tv molto cinematografici, quella frustrazione può essere risparmiata.

Ma veniamo appunto all’oggi. Sto vivendo, a distanza di quarant’anni, una seconda stagione di riconoscimenti, di legittimazione del mio lavoro e soprattutto di quei due film, Il gatto dagli occhi di giada(1977) e Solamente nero(1978), con cui giovanissimo mi sono imposto all’attenzione del pubblico e anche di certa critica di allora, sebbene il genere giallo-thriller ne fosse spesso snobbato. Oggi sono proprio i giovani (o quasi) a riempirmi di affetto e di testimonianze di stima inaspettate. Sono loro (e mi viene da dire: com’è giusto che sia) che hanno fatto rivivere quelle pellicole consacrandole ai posteri. Sto esagerando? Forse, ma perché no! Ed è come se il cerchio si chiudesse, come se in questo momento trovassi la risposta alla mia domanda iniziale: perché sono “ossessionato” dal desiderio di raccontare e filmare la mia autobiografia? Che si tratti di un desiderio, più o meno inconsapevole, d’immortalità? Di solito è ai figli che si consegna il proprio passato, è in loro che continuiamo. Io non ho figli, ma in qualche modo, avendo visto crescere e divulgarsi nel mondo i miei film, è come se io continuassi grazie a loro e con loro. Sarà così? Come si dice, ai posteri l’ardua sentenza, mentre ai presenti un grande e sentitissimo grazie.

Questa sembrerebbe una conclusione, ma non lo è e io stesso me ne stupisco. Non lo è perché sto per girare un nuovo thriller, Clara la prima moglie, un titolo omaggio ad Alfred Hitchcock e un pochino a me stesso, visto che i protagonisti saranno Lino Capolicchio e Stefania Casini, gli stessi attori (e miei amici) di Solamente nero. Sarà un mediometraggio della durata di circa 40 minuti, perché a produrlo saremo io e i miei sostenitori del crowdfunding. Quindi, sarà un lavoro low budget. Solo a pensarci mi vengono i brividi per tutta una serie di motivi.

Il primo. Manco da un set cinematografico di un’opera di fiction dagli anni Novanta e cioè da Blue Tornado(1991), e da quegli anni a oggi ho sempre lavorato su altri tipi di terreno, dai ricchi set pubblicitari a quelli per i documentari promozionali. Ma non è stata la stessa cosa. La magia del set di un film è unica e irriproducibile, gli altri set sono surrogati.

Il secondo. La storia che racconterò è solo apparentemente semplice – uno scrittore anziano, paranoico e in crisi d’ispirazione scopre una scomoda verità a partire dalla pagina bianca dove s’è interrotto vent’anni prima – ma è proprio l’apparente semplicità delle poche azioni da cui prendono vita i personaggi a esigere un lavoro – da parte mia – niente affatto scontato sugli attori, sulle inquadrature, sulla luce e sull’uso dello spazio/tempo del set.

Il terzo. È una sfida, cui alla fine ho ceduto come a un richiamo delle sirene. Ma ancora una volta il mio carattere, di cui ho dimenticato di ricordare un tratto sostanziale – la pignoleria, la meticolosità a fronte di un pressapochismo assai diffuso – mi costringe a pormi delle domande molto serie: sarò in grado, con i tempi e i costi di un low budget, di realizzare il film per come ce l’ho nella testa?

Quarto. Devo giocoforza confrontarmi con le aspettative di quei giovani e meno giovani di cui ho parlato prima e di tutti coloro che mi chiamano “Maestro”!

Che altro dire? A volte mi sento in trappola, altre non vedo l’ora di cominciare. Talvolta, per spingermi a lasciare perdere, mi dico che sono vecchio e le avventure non mi si addicono più, ma subito dopo mi sento offeso dalla mia stessa opinione e do voce al ragazzo che continua a parlarmi e a incitarmi. Non è Peter Pan, non è desiderio di fuga dal reale. È solo una maledetta voglia di mettermi dietro la macchina da presa, urlare «Azione!» e… succeda quel che deve succedere!

 

 

Note

1 A partire dalla metà degli anni Settanta, Antonio Bido scrive, gira e monta decine di docu-fiction prodotti dalla Marina Militare Italiana e dall’Aeronautica Militare Italiana, che mettono a sua disposizione ingenti mezzi tecnici e logistici. Jet, elicotteri, sommergibili, navi d’appoggio: in condizioni di adrenalina e notevole pericolosità, Bido confeziona clip ad alto coefficiente spettacolare, che da un lato lo preparano all’action di Blue Tornado (1991), mentre dall’altro lo allontanano dal cinema. In queste produzioni, infatti, il regista beneficia di una totale libertà creativa e riesce a sposare il “dovere” alla base della realizzazione di un prodotto su commissione al “piacere” di poter maneggiare il mezzo espressivo con mano libera. Queste docu-fiction, della durata di 10-15 minuti, presentano un format ben definito, ideato proprio da Bido: a una prima parte rigidamente documentaria segue un segmento di pura finzione, nel quale viene simulato un episodio chiave per comprendere l’operato delle Forze Armate (per esempio, in Il reggimento San Marco [2000] si assiste a un salvataggio di civili in area di guerra, mentre in Incursori [2001] è ricostruito un recupero ostaggi).

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