Ne uccide più la penna che la matita

Francesco Manetti
Dylan Dog – Nostro orrore quotidiano n. 16/2020
Ne uccide più la penna che la matita

Riflettere sull’Indagatore dell’Incubo vuol dire per forza di cose spendere qualche parola anche sui suoi sceneggiatori. Con il proliferare delle collane esplose per forza centrifuga dal fortunato mensile nato nel 1986, infatti, abbiamo assistito anche a una loro incredibile frammentazione. Stiamo scrivendo queste righe alla fine di dicembre del 2019, in vista dell’uscita del n. 400 del mensile, e gli sceneggiatori sono ormai arrivati a un totale di ottantaquattro. Sì, avete letto bene: ottantaquattro, con trend in crescita! Il dato è inequivocabile perché, come tutti gli altri “numeri” che leggerete più avanti, proviene dall’immenso (e accuratissimo) database bonelliano di Saverio Ceri, eminente critico fumettistico toscano della vecchia guardia, colonna di numerose riviste del settore fin dagli anni Ottanta e oggi curatore con il sottoscritto del blog Dime Web (Ceri è stato indispensabile anche nelle fasi finali di revisione e correzione di questo testo).

La metà di questa sterminata popolazione di artisti della penna ha però all’attivo una sola storia di «Dylan Dog» – breve o lunga che sia. Difficile poter dire che tali signori abbiano lasciato un’impronta nella serie, anche se fra loro ci sono grandi nomi del fumetto popolare, e non solo. Riccardo Secchi, per esempio, figlio di Luciano “Max Bunker” Secchi (l’immortale creatore di «Alan Ford», «Kriminal», «Satanik» e via dicendo), ottimo sceneggiatore bonelliano di «Nathan Never», la testata di fantascienza della casa milanese. Oppure Angelo Stano, insieme a Claudio Villa il creatore grafico dell’Indagatore dell’Incubo, che un’unica volta si è voluto cimentare con i suoi testi. O ancora Bepi Vigna, esponente di spicco della “Banda dei Sardi” (suoi complici sono Antonio Serra e Michele Medda), che ha creato agli albori dei Novanta la serie di «Nathan Never». Ci sono poi Luca Enoch (uno dei più culturalmente impegnati fra gli autori della Bonelli, con le miniserie «Gea» e «Lilith»), Zerocalcare (vera e propria nuova star fumettistica, lanciata dal web e dai giornali), Corrado Mastantuono (fra i maggiori disegnatori disneyani e bonelliani dell’ultimo ventennio) e Giancarlo Berardi (il “papà” di «Ken Parker» e «Julia»).

Impossibile, infine, non ricordare Dario Argento, celeberrimo regista del thriller cinematografico italiano, amante delle tinte forti, dell’horror e dello splatter, nonché autore di capolavori come Profondo rosso, Quattro mosche di velluto grigio, L’uccello dalle piume di cristallo, Suspiria, Inferno… solo per ricordare, alla rinfusa, i titoli che più hanno stimolato la fantasia e la spina dorsale degli spettatori. Il «Dylan Dog» di Argento è uscito nel luglio del 2018: la critica fumettistica ha accolto con relativa freddezza questa storia (scritta in collaborazione con Stefano Piani, dello staff di «Nathan Never»). Interessante il commento di Davide Scagni, pubblicato in Rete sul sito specializzato Fumettologica: «Introdotto da una cover – ça va sans dire – argentata del sempre elegante Gigi Cavenago e con un titolo che più scontato non si può (Profondo nero), l’episodio si mantiene sulla linea di una piacevole medietà, presentando una storia ben costruita e divertente, pur senza particolari guizzi di originalità. Nonostante la portata del tema scelto avesse in sé le potenzialità per qualcosa di forte, il regista-autore sceglie invece un registro piano, rassicurante, pop, con quel pizzico di proibito che cattura l’attenzione ma non impegna, non crea scompiglio, non scandalizza né inquieta. Il maestro a cui più di tutti senza dubbio Tiziano Sclavi ha guardato per costruire le storie del suo personaggio (come dimostrano le numerose citazioni dei primi albi) sembra qui umilmente farsi da parte. O, meglio, sembra omaggiare il lavoro di Sclavi, la sua ironia – che è cifra dello stesso Argento –, il citazionismo spinto come il romanticismo esibito del personaggio, e allo stesso tempo deve mettere purtroppo in secondo piano le derive splatter e gore che ormai non sono più consentite in un albo bonelliano da edicola».

Fin qui abbiamo parlato dei più importanti e noti fra gli autori che hanno scritto un’unica storia di «Dylan Dog». Ci sono poi quelli che hanno nel loro curriculum la paternità di almeno due e non più di nove titoli della serie: si tratta di un folto gruppo, che comprende nomi di alta caratura, come Antonio Serra (già citato fra i creatori di «Nathan Never»), Mauro Boselli (uno dei più prolifici sceneggiatori bonelliani, che ha lavorato per «Tex», «Zagor» e «Dampyr», collana da lui ideata), Marcello Toninelli (disegnatore umoristico con numerose serie di sua invenzione, dedicate soprattutto alla parodia della Storia e della grande letteratura, oltre che scrittore bonelliano di «Zagor»), Alfredo Castelli (uno dei più grandi sceneggiatori italiani, inventore di personaggi che hanno fatto la storia del fumetto d’Italia, tra cui «Martin Mystère»), Michele Masiero (attuale direttore editoriale della Bonelli) e Carlo Ambrosini (fra i più ispirati disegnatori di «Dylan Dog», esperto d’arte, di giallo e creatore di collane indimenticabili, come «Napoleone»).

Un caso a parte è costituito da Mauro Marcheselli (precedente direttore editoriale della SBE e per anni curatore di «Dylan Dog» dopo Sclavi), che non ha scritto sceneggiature, ma solo soggetti, ovvero la trama generale delle storie, senza occuparsi dei dialoghi e della scansione più minuta delle sequenze, delle tavole e delle vignette. I suoi soggetti, rari e preziosi, hanno contribuito alla creazione di alcuni fra i più interessanti e ispirati albi della collana negli anni Novanta, tra i quali brilla Il lungo addio del 1992, struggente racconto d’amore e morte.

Ci sono poi quegli autori, meno di venti, che hanno scritto a fondo per Dylan, dalle mille tavole in su, ovvero almeno una decina di storie diverse a testa, e che – chi più, chi meno, nel bene e nel male – hanno lasciato una certa impronta nella collana. Il primo è ovviamente Tiziano Sclavi, creatore del personaggio e del suo universo. Classe 1953, prima del debutto di Dylan vantava già una lunga carriera come scrittore (gialli e horror di ogni tipo, soprattutto per ragazzi) e fumettista – sia come curatore di riviste («Pilot» e «Orient Express»), sia come sceneggiatore (per il «Corriere dei Ragazzi», il «Messaggero dei ragazzi» e, in Bonelli, per «Ken Parker», «Zagor», «Mister No» e «Kerry il Trapper», sua creatura).

Negli anni Ottanta, dopo la prova generale costituita da «Mister No» – le cui avventure furono collocate dal creatore Guido Nolitta nel dopoguerra, in un’ambientazione sudamericana –, la Bonelli decise di cominciare a puntare su eroi di un nuovo stampo. Non più soltanto western con protagonisti americani dell’Ottocento o del Settecento, come Zagor, Tex e il Comandante Mark, impegnati contro minacce di ogni genere nei territori di frontiera degli Stati Uniti (fra indiani, cowboy, trapper, Giubbe Rosse, politici corrotti, sceriffi infedeli, ranger, pistole, carabine, città fantasma, praterie, miniere, contrabbandieri, sierre nevade e montagne rocciose, deserti, cactus, grandi laghi e via dicendo), ma personaggi del XX secolo, residenti in solide case – non più capanne, tende o fortini – all’interno di enormi metropoli. Lanciato da Alfredo Castelli nel 1982, «Martin Mystère» fu l’apripista di questa nuova sensibilità editoriale: il “realismo fantastico”, l’archeologia “misteriosa”, le teorie degli “antichi astronauti” e dei continenti “perduti” escono dai saggi di Louis Pauwels & Jacques Bergier, di Peter Kolosimo ed Erich von Däniken, per approdare alle pagine di un fumetto che vanta uno dei più solidi background documentativi di sempre.

Nel 1986, è dunque il turno di «Dylan Dog». Un altro passo avanti verso il rinnovamento della “filosofia fumettistica” bonelliana: l’eroe è, per la prima volta, un europeo; la base delle sue attività non è più un villaggio o una città americana, ma una capitale del Vecchio Mondo, Londra. L’eroe di Sclavi è un donnaiolo, come il primo Mister No (oppure, se più vi aggrada, diciamo che è sensibile alle lusinghe del gentil sesso), ha un passato recente da poliziotto e alcolista e uno più antico tutto da definire, è perennemente sull’orlo della bolletta, è appassionato di modellismo, musica classica, letteratura e cinema di genere, ha un latente potere paranormale, è afflitto da mille fobie (tra cui quella di volare), ha un rapporto conflittuale con le armi, le macchine, l’elettronica e le nuove tecnologie. Nell’idea di Sclavi, il protagonista diventa la storia stessa. Essendo una sorta di detective privato di casi sovrannaturali, la sua casa-studio londinese, dove riceve i clienti (e dove spesso giace, di notte, con le clienti più “simpatiche”), funziona da calamita per ogni genere di mostruosità.

Ecco, il mostro. Nei primi anni della collana Sclavi si concentra sulla figura del mostro: sia sul mostro “classico” (il vampiro, il morto vivente, l’uomo invisibile, la creatura in stile Frankenstein, il fantasma, il licantropo, la mummia, il mutaforma, il blob, l’alieno, il morbo epidemico, eccetera), sia sul mostro “moderno” (il serial killer, il politico spietato, il mutante, i mezzi d’informazione, la pubblicità, il denaro…). Nelle sue sceneggiature, Sclavi adotta il mostro, lo coccola e poi lo smembra, lo spezzetta, lo trita, ne raffina le polveri, le impasta con linfa nuova, e con nuova argilla crea un golem post-moderno, un nuovo mostro, sfruttando le infinite variazioni possibili sul tema. La sua sceneggiatura segue lo stesso procedimento adottato per il mostro; non è (quasi) mai lineare o “classica”; talvolta il racconto principale, l’ossatura della storia, sembra disperdersi in mille rivoli di sottotrame, interrarsi, per poi riapparire in modo carsico e sfociare in una estremamente logica soluzione dell’intreccio. Il finale resta spesso aperto, soprattutto se è in ballo la vicenda stessa di Dylan Dog, narrata nei numeri “centenari”, quando appare l’amata Morgana o torna il padre-demone, il padre-nemico (o forse il non-padre) Xabaras.

Tiziano Sclavi ha al suo attivo oltre diecimila tavole di «Dylan Dog», su un totale che, considerando tutte le collane, ha raggiunto nel 2019 le sessantacinquemila unità. Circa un sesto di tutta la produzione. Non è molto, perché a partire dal Duemila il grande sceneggiatore di Broni ha virtualmente “abbandonato” la sua creatura. Dal 2000 al 2019 sono uscite soltanto undici storie scritte da lui: due all’anno nel 2000, nel 2001, nel 2006 e nel 2007, e poi una nel 2016, un’altra nel 2017 e l’ultima nel 2019. Possiamo dunque dire che quello di Sclavi è il «Dylan Dog» degli anni Ottanta e Novanta. Inutile girarci intorno: il migliore, il più affascinante e coinvolgente, sempre capace di strabiliare il lettore.

Fra i continuatori di Sclavi, ovverosia quegli sceneggiatori che hanno seguito più da vicino le orme del creatore della serie, il più attivo è stato senz’altro il sardo Pasquale Ruju, che negli anni ha scritto quasi ottomila tavole per l’Indagatore dell’Incubo, lavorandovi dal 1995 in poi. Romanziere oltre che fumettista, Ruju è stato intervistato nel 2018 dal sito Critica Letteraria. L’intervistatore gli ha fatto una domanda su cosa vuol dire essere uno sceneggiatore che lavora su personaggi non suoi. Ruju ha risposto: «Bisogna fare un lavoro di stampo “teatrale”, simile a quello dell’attore: è importante interiorizzare il personaggio, proiettarti dentro di esso, in modo quasi stanislawskijano. Poi, fatto questo, dimenticare ciò che hai imparato e provare a lavorare in maniera libera. A modo tuo. Nel caso di “Dylan Dog”, ogni autore della serie sa che il suo lavoro non deve essere una brutta copia del personaggio di Sclavi, ma deve avere un’impronta personale senza tradire i canoni creati da Tiziano. In questo modo puoi rendere un buon servizio al lettore».

Il discorso è sicuramente generale, in Bonelli (ma anche nelle altre case editrici con personaggi storici e consolidati, come la Disney, la Marvel, la DC, eccetera): chiunque scriva per «Tex» o «Zagor» deve fare i conti con i creatori – rispettivamente Gianluigi Bonelli e Guido Nolitta, alias Sergio Bonelli, i due grandi editori-scrittori. Ma, come hanno spiegato in più occasioni Mauro Boselli (l’attuale continuatore e curatore di «Tex») e Moreno Burattini (che ricopre lo stesso ruolo per «Zagor»), occorre sempre rinnovare rimanendo nel solco della tradizione, esplorando e approfondendo spunti narrativi che nelle storie dei creatori magari erano solo accennati, ma comunque presenti; in «Tex», per esempio, Boselli punta molto sulla rievocazione del passato dell’eroe, antecedente il n. 1 della collana; oppure costruisce più avventure intorno alle figure femminili o con sfondi misteriosi, horror o addirittura fantascientifici.

Vanta quasi seimila tavole Paola Barbato, che ha esordito nel 1998 e che nel 2019 ha conquistato il podio degli scrittori più fertili di «Dylan Dog».  Le sue sceneggiature sono costruite con puntuale perizia da scrittore: grande costruzione e scorrevolezza della trama, sceneggiatura cesellata con accurata regia e scansione, nessuna sbavatura, nessun errore logico, nessun “buco”, personaggi di contorno ben curati, meditati, scolpiti. Anche qui lasciamo parlare la diretta interessata (intervistata nel 2016 da Lo spazio bianco): «Ogni autore ha una visione propria del personaggio, e questa visione è (e deve essere) inevitabilmente unica. Di Dylan ho sempre colto l’umanità in tutte le sfumature (anche quelle deteriori) che Tiziano disseminava in infiniti dettagli nei suoi albi. Questa sua umanità, questa sua preziosissima fallibilità, mi ha sempre attratta, anche quando non mi piaceva e personalmente l’avrei contrastata. Cerco di coltivarla come un humus fondamentale e, sì, le sue debolezze sono un elemento che nei miei albi non manca mai. Perché la grande forza del personaggio sta nel suo non essere un eroe. Fin dall’inizio il mio approccio è sempre lo stesso, il mio rapporto con il personaggio anche, l’amore e il conflitto. Negli anni ho affinato la tecnica, ho limato alcuni errori, sicuramente ne ho inventati di nuovi. Cerco di non “riconoscere” mai niente nelle mie storie. Non rivendermi idee già proposte (almeno non consapevolmente), non clonare personaggi o situazioni, nei limiti del possibile cerco di sorprendermi. Credo che la debolezza di Dylan sia la sua forza, l’ho sempre detto. Ha accorciato la distanza dal lettore, che non lo ammira solo ma sa di poter aspirare a essere come lui. L’identificazione in Dylan è, a mio parere, la chiave del suo successo. Ha espresso dubbi e tormenti che appartengono a tutti, e lo ha fatto in una maniera disarmante. Tanto da toccare anche me, e glielo riconosco. Non è possibile cambiare Dylan Dog. Non si cambiano le persone. Poi, che io non sia d’accordo con lui, che qualche volta voglia scuoterlo e dirgli di smetterla di arrovellarsi su tutto, che gli auguri un po’ di leggerezza è inevitabile. Ma gli voglio bene così com’è. Di ruoli nella mia vita Dylan non ne ha avuto uno solo. Il più importante è stato ovviamente quello di darmi una stabilità, una direzione, un percorso. Ma prima, quando “Dylan Dog” e “professione” non erano nemmeno due parole avvicinabili, mi ha tenuto compagnia e, come credo sia avvenuto a molti lettori, mi ha fatta sentire meno sola. È una cosa che mi era successa solo con Stephen King, quel senso di familiarità, il presentarsi al lettore come uno specchio e non come un’immagine da rimirare. Dopo, una volta imparato a camminare insieme (se non all’unisono, almeno non scoordinati), è stato una costante, una presenza vera, reale, che va al di là del fatto che lui non esista e io sì (o il contrario). C’è, per me. E sa che io ci sono per lui. Dylan è sempre stato un personaggio con una forte aderenza al sociale, le sue storie spesso si sono fatte carico di messaggi sui diritti, l’uguaglianza, la pace, il rispetto per gli animali… Questo pone l’attenzione sul tema della responsabilità, ma la responsabilità dell’autore nei confronti delle sue opere non sta solo nei temi, sta nel rispetto di un universo in perenne movimento eppure in equilibrio, e di questo equilibrio fanno parte anche i messaggi, che sono di Dylan come di Tiziano. Se non li condividi, semplicemente non li tratti. Se li tratti, lo devi fare con la testa di Dylan, non con la tua. Se poi le due cose coincidono, meglio. Certo, è sempre come maneggiare il plutonio. “Dylan Dog” è un fumetto horror. Tutti abbiamo paura. Di cose sempre diverse e sempre uguali, lo stesso mostro indossa infinite maschere. Soprattutto negli ultimi anni, la paura ha assunto sfumature più nette, marcate, evidenti. Basta guardarsi intorno per sapere ciò di cui la gente ha paura. E, analogamente, basta guardarsi allo specchio. Temiamo noi stessi, i nostri simili, i mostri che si annidano nell’apparente normalità. Le stesse cose di cui Dylan parla da sempre. Cambia il modo di raccontarle, la chiave narrativa, ma mai come ora l’orrore di Dylan Dog è attuale».

La carriera del veterano Claudio Chiaverotti ai testi di «Dylan Dog», a partire dal 1989, è per certi versi parallela a quella del creatore: anche lui, intorno al 2000, ha quasi del tutto “abbandonato” l’Indagatore dell’Incubo, non per ritirarsi a vita privata, come Tiziano Sclavi, ma per lanciare sue serie autonome in Bonelli: il fantasy «Brendon», nel 1998, e il thriller fantascientifico (difficilmente inquadrabile in un genere definito) «Morgan Lost», nel 2015. Per Chiaverotti, che ha sceneggiato una cinquantina di storie del personaggio, con un totale di quasi cinquemila tavole, vale il discorso fatto per Ruju: continua la rivisitazione in chiave contemporanea della pan-mostruosità sclaviana.

In un’intervista pubblicata da Badcomics nel 2016, viene evocato il vero spirito del “suo” Dylan, affine a quello di Sclavi, filtrato attraverso una nuova sensibilità personale. Ecco cosa dice Chiaverotti: «Mi sentii subito in linea con questo personaggio ironico, divertente, introspettivo, che era poi un’espressione del suo geniale autore. Memorie dall’invisibile, per esempio, scardina gli stilemi canonici del fumetto. Il cattivo viene spiegato a pagina 60 e il protagonista piange per amore di una prostituta. Pazzesco! Quell’albo ha poi un’umanità particolare che rende vera, quasi palpabile, la personalità del personaggio, ti sembra di conoscerlo. Mi sono sentito subito vicino a lui, sia per la sua ironia, che per la sua sofferenza interiore. Poi mi piaceva la regia: “Dylan Dog” iniziava subito, da pagina 1, anticipando una modernità incredibile. Infine adoravo il gioco delle citazioni, anche se non riuscivo a coglierle tutte. Sclavi è una persona dalla cultura enciclopedica, così come lo erano Canzio e Sergio Bonelli. Ricordo che una delle cose che mi disse all’inizio fu: “Se vuoi fare Dylan Dog, devi leggere Thomas Mann, non solo Stephen King”. Dylan non farebbe mai cose che Sclavi non farebbe. È una cosa molto interessante, che vale per tutti i personaggi. Tendenzialmente sono una proiezione del loro autore; è una questione di comodità, per garantire sempre una coerenza di comportamento. Morgan Lost sono io, come pure Brendon, anche se descrivono lati diversi della mia personalità: il primo la voglia di scappare che abbiamo tutti, il secondo il fascino del mistero, della psicanalisi. Ricordo che, per Titanic (il n. 90), mentre stavo spiegando il soggetto a Sclavi, gli ho detto: “Senti, potremmo fare che alla fine si avvicina alla nave deserta un elicottero per prendere Dylan e portarlo in salvo”. Rammento molto bene che Tiziano mi rispose: “Ma sei impazzito? A me, per farmi salire sull’elicottero, devono darmi una botta in testa!”. Fra le mie storie, quella che ricordo in modo speciale è Il confine, il n. 122, illustrato da Dall’Agnol. Era il periodo in cui facevo tutte le storie. Tiziano si era preso un anno sabbatico dopo un lavoro immane. In quell’albo ero partito alla Sclavi, senza sapere come sarebbe andato a finire il fumetto, iniziando con il fatto che erano tutti morti. Dopo qualche giorno passavo le ore sul divano a fissare il soffitto… E non potevo tornare indietro, Piero aveva già realizzato diverse tavole. Poi la fantasia mi è venuta in aiuto, così come i disegni bellissimi di Dall’Agnol».

Scendendo in basso nella classifica degli sceneggiatori più fecondi, troviamo due autori posizionati entrambi intorno alle tremilacinquecento tavole di «Dylan Dog». Il primo è Giovanni Di Gregorio, scrittore disneyano, bonelliano dal 2006; in un’intervista ha detto che non è il suo Dylan «a essere riconoscibile, quanto le storie che gli cucio addosso. Storie di testa, di scarti laterali, di incroci, di contrappesi, di sorprese, di filigrane robuste che accompagnano come un sottofondo l’intero episodio». L’altro è un grandissimo artigiano del fumetto (da intendersi come un complimento, visto che il fumetto, con la sua naturale serialità, è più artigianato che arte, più mestiere che ispirazione del momento): Luigi Mignacco. Nato nel 1960 a Genova, è stato il secondo ad affiancare Tiziano Sclavi ai testi dell’Indagatore dell’Incubo, nell’ormai remoto 1987.

“Secondo”? Apriamo una parentesi, segnalando che il primo collaboratore alle sceneggiature fu Giuseppe Ferrandino, da decenni apprezzato giallista di rilevanza internazionale; le sue tre uniche storie di «Dylan Dog» (apparse fra il 1987 e il 1989) occupano da sempre un posto nel cuore dei lettori.

Tornando a Mignacco, possiamo definirlo il più versatile fra gli sceneggiatori bonelliani, avendo lavorato praticamente per tutte le serie della casa editrice di Via Buonarroti, creando anche personaggi suoi, come il viaggiatore nel tempo Robinson Hart.

Infine, fra gli altri autori più impegnati sul fronte “dylaniato”, ricordiamo senz’altro Michele Medda (sceneggiatore di punta in Bonelli su molte collane classiche e su mini-serie di sua ideazione, universalmente noto come co-creatore di «Nathan Never») e Gianfranco Manfredi (uno dei maggiori inventori di collane bonelliane, con «Magico Vento», «Volto nascosto», «Shanghai Devil» e «Adam Wild»).

Negli ultimi anni, con l’opera di nuovi sceneggiatori, che hanno avuto carta bianca dal creatore Tiziano Sclavi e dall’editore, abbiamo assistito – quasi a smentire le parole “ascoltate” di Ruju, della Barbato, di Chiaverotti… – a un certo cambiamento nell’animo stesso della serie e del protagonista. Un Dylan diverso, più triste, sofferente e facile da sconfiggere, ancora meno eroe (o più anti-eroe, se preferite) di come lo avesse concepito inizialmente Sclavi e di come lo avessero portato avanti i suoi continuatori, un personaggio molto più permeabile di prima alle influenze del “politicamente corretto”. Questa situazione è dovuta non solo all’apporto di nuovi autori di testi, ma soprattutto a un doppio cambio ai vertici redazionali di «Dylan Dog». Nel 2010 Giovanni Gualdoni è il nuovo curatore della collana, in sostituzione di Mauro Marcheselli. Le prime sceneggiature del “nuovo corso” recano la sua firma. La rivoluzione viene portata avanti, con un’effettiva programmazione editoriale all’insegna di un forte rinnovamento (“radicale” nelle intenzioni) della collana, dallo scrittore Roberto Recchioni, nominato curatore di «Dylan Dog» nel 2013.

Nuovi personaggi si affacciano nella serie, antichi comprimari (come l’Ispettore Bloch) mutano ruolo, vi sono continui colpi di scena (l’Apocalisse, il “matrimonio” con Groucho), cambia addirittura il logo di testata, cambia il copertinista, grande apertura al marketing… Insomma, il futuro di Dylan Dog lo stanno ancora scrivendo!

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