Fenomenologia della parolaccia. Elogio consapevole del politicamente scorretto

Andrea Giorgi
Carlo & Enrico Vanzina n. 7/2018

C’è una scena che più di tutte rende l’idea. Vacanze di Natale (1983). Christian De Sica, finiti i fuochi d’artificio di Capodanno, viene scoperto a letto con un uomo da papà Riccardo Garrone e mamma Rossella Como: «È colpa mia se ci abbiamo il figlio frocio?». De Sica: «Eh, frocio! Bisex… moderno, mamma, ecco. Moderno». Garrone: «Moderno? Moderno un par de balle!». Carlo ed Enrico Vanzina non sono mai (stati) banalmente volgari neppure in certe situazioni da camera da letto, da mogli in bianco e amanti al pepe. Neppure durante gli anni Ottanta quando certe cose erano comprese nel prezzo. Sicuramente migliori delle etichette che spesso li hanno preceduti, i Vanzina vantano modi garbati che si scontrano con una sorta di passione per la parolaccia, comunque sempre funzionale al loro modo di concepire e scrivere la commedia, la situazione comica. Che è più di parola che d’immagine. Nella loro concezione di conformismo, il turpiloquio fa parte di un’urgenza narrativa che rimanda all’attualità e a precisi riferimenti pop. Alla citazione cinefila e onnivora di tutto ciò che è nell’aria: la hit del momento, lo spot, il modo di dire storpiato. «Vade retro, Saragat!» urla Abatantuono. «Provare, per credere» dicono Boldi e De Sica con le mani a mulinello e poi a indicare la trombata. «Ho incendiato la Vallespluga» sentenzia Jerry Calà dopo aver finto di bruciare il pollo per convincere la fidanzata a mangiare al ristorante, così da liberare la casa per l’arrivo del suo capo cumenda con «signora in rosso» al seguito. La carrellata dei loro personaggi è stata spesso azzeccata, sempre genuina. Trucidi loro malgrado. Triviali di talento. Che si esprimono con forti inflessioni dialettali, esagerando nelle allusioni sessuali. Che non resistono al piacere dell’eccesso, della trasgressione.

A Carlo ed Enrico la critica rinfaccia(va) un atteggiamento blandamente accusatorio, forse anzi compiaciuto, nei confronti dei tipi umani raccontati, al contrario di quanto avveniva con i grandi padri Dino Risi e Mario Monicelli. L’indignazione intellettuale si è sempre mossa in direzione ostinata e contraria rispetto alle risate del pubblico, alla scelta del popolo, al mondo reale. Ai gusti degli spettatori. Da neorealisti del popolare, certe caratterizzazioni vanziniane fanno invece sociologia. Vacanze di Natale, per esempio, era filiazione diretta e aggiornamento di Vacanze d’inverno (1959) con Sordi e De Sica padre, mentre Sapore di mare portava al passo con i tempi tutta una tradizione di commedia all’italiana sotto l’ombrellone.

Nel saggio Cinema a Natale. Da Renoir ai Vanzina, Giorgio Simonelli sottolinea il Vanzina-touch, ovvero quella levità che contraddistingue il cinema dei due fratelli: «Bonomia e un accettabile sentimentalismo con un tocco che non era quello di Lubitsch, ma non era neppure greve, con una simpatica vivacità che sprizzava dall’affiatato gruppo dei personaggi». C’erano i mejo coniugi del cinema italiano Mario Brega e Rossana Di Lorenzo (proprio di sordiana derivazione), lo stesso Garrone e la sua frase manifesto di tutto un filone a venire: «E anche questo Natale… se lo semo levati dalle palle». Christian De Sica, più di Jerry Calà, era mirabile – lo è sempre stato – nel nobilitare pochades che potevano essere porcate, con mimica e gesti di papà Vittorio, di Gianni Agus e naturalmente di Sordi che, quasi come lui, in Made in Italy di Nanni Loy (1965) veniva sorpreso sotto le lenzuola dalla moglie Rossella Falk (ma nel suo caso con una donna). De Sica, troppo elegante per far ridere solo con la faccia, ha impreziosito con il suo talento comico e la sua scorrettezza piaciona diverse situazioni. Prima di raggiungere la celebrità aveva interpretato uno spagnolo in Viuuulentemente mia (1982), per il cui ruolo si era ispirato a quello super liftato di Don Jaime De Mora y Aragon in Il giudizio universale (1961), diretto da suo padre Vittorio, qui rivisitato con il vizietto: «Encantado!». Una piccola parte che ha fatto da lasciapassare per Sapore di mare (1983). L’esplosione è poi stata con il don Buro di Vacanze in America (1984), vanzinata tra le più divertenti, zingarata scatenata, estasi (del e nel) pecoreccio, come forse avrebbe detto Tommaso Labranca. Dalle parti del cult pure il Calà, studente fuori corso, che a New York porta i compagnucci della parrocchietta dall’amico «schiantatope» ma poi sulla terrazza trova un festino gay: «E questi chi sono? I Village People?». Turpiloquio che si fa licenza poetica: «Ti ringrazio, ma io sono rimasto fedele alla cara e vecchia faiga», prima che Jerry si rinchiuda in una stanza d’albergo di Las Vegas e richieda le prestazioni di una escort. Sul catalogo sceglie una bellona 90-60-90, ma alla porta bussa quella che potrebbe essere sua nonna. In Yuppies. I giovani di successo (1986) si apprezza il «corpo grottesco» di Massimo Boldi, come lo definisce Alan O’Leary nell’indispensabile Fenomenologia del cinepanettone. A letto con la segretaria Valeria D’Obici si mostra in mutandoni e fasce elastiche anti-reumatismi. Segue orgasmo canterino, un po’ lirico e un po’ Righeira. Qui De Sica, indisciplinato sempre infoiato e traditore per vocazione, appena le mogli vanno in vacanza si fa tentatore. Boldi: «Stasera mia moglie mi ha organizzato un minestrone da scaldare, figurati!», De Sica: «E invece io t’ho organizzato due zoccolone da trombare, non lo so, scegli tu eh». Un paio d’ore e la coppia è in trattoria con Loredana e Moana, nomen omen. Ezio Greggio osa l’inosabile con Corinne Cléry, riportando a una seduzione “pane e salame” le trasgressioni “alte” di Histoire d’O (1975): «Sono Willy, per gli amici Black & Decker. Seguo la corrente mediterranea del one touch and run, una botta e via». E fa niente se la matura francese «a occhio e croce è targata Cartagine» come la sua macchina, l’importante è scappare a gambe levate una volta scoperto che si tratta della madre di colei che, ancora “sbarbata” (a parole, ché nei fatti sarà tutt’altra cosa), a Willy avrebbe deciso di «mollare la Saint Honoré» sbrigando, così, la «pratica-materasso».

E se qui il substrato culturale si aggirava nei dintorni del Drive In, non di meno gli esordi dei fratelli Vanzina avevano affiancato il cine-cabaret dei Gatti di Vicolo Miracoli, lanciati dal successo in Rai di Non Stop. Ballata senza manovratore, per la regia di Enzo Trapani. Poco più che esordienti, Carlo ed Enrico scommettono sul loro esordio al cinema. Arrivano i gatti, uscito a febbraio 1980 (a Milano nei “centralissimi” Mediolanum e Colosseo), è un piccolo delirio nonsense che, se da una parte rincorre il tocco surreale di Woody Allen, dall’altra anticipa il genere barzellettiero-pierinesco. «Una rivisitazione moderna della comicità dei fratelli Marx» azzardava il Corriere della Sera. Quasi un biopic che seguiva il desiderio di successo dei Gatti, da Verona – dove svolgevano lavori infami – a Roma, obiettivo il grande cinema. Dall’esibizione all’ospizio con la vecchia che urla («Tornate nudi!») a Franco Oppini impiegato strafatto al cesso che si presenta dal notaio senza mutande, facendo impazzire le sue assistenti beghine. Nella capitale per loro è comunque durissima. Sul tram incontrano i borgatari guerrieri della notte che li spogliano di ogni cosa, costringendo il gruppo a scendere dal mezzo con le chiappe al vento. Sul set, dove si gira un improbabile La dottoressa del distretto ogni sera c’ha il vizietto di portar gli alpini a letto (in doccia: Orchidea De Santis), incontrano Ennio Antonelli che comanda le comparse: «L’appuntamento è a Cinecittà e chi arriva tardi se lo pija ’nder culo». Memorabile l’incontro in campeggio con la famiglia svedese così avanti che il bambino legge Playboy sulla tazza e tutti voglio fare sesso con tutti. «Scene da un matrimonio», ma «non mi tocchi Il settimo sigillo», grida Nini Salerno con verve cinefila. E giù con la gara di scoregge nel salotto buono del produttore.

Singolar tenzone che fa il paio con quella dei personaggi famosi con nomi che iniziano con la “M” in Le finte bionde (1989), esaltazione stracult del generone romano stracafonal, per dirla alla Dagospia. Ancora di più rivisto oggi. Cinzia Leone finta bionda (che mostra l’ascella in stile foresta nera: «Sotto sono così») parla del marito Sergio Vastano, che nella gara le sa tutte: «C’ha un cervello che Umberto Eco je fa ’na pippa». Là, nel salotto buono, si celebrava la superficialità borghese pre-Tangentopoli. Più coatti che kitsch. E, se il contesto è polveroso, retrò, lo spirito è sempre proiettato alle meraviglie della modernità. Al telefono in auto e ai primi computer. A Guido Nicheli che fa il cazziatone a Isaac George perché ha sbagliato a videoregistrare gli appuntamenti di Canale 5 e Rete 4. Via Montenapoleone (1987) si proponeva come spaccato della contemporaneità: molto Canale 5 in prima serata, Milano da bere, pubblicità. Formidabili quegli anni. Drammi borghesi patinati intersecati tra loro. Da sfogliare come un fotoromanzo… Bruttissimo o memorabile, a seconda dei punti di vista. Carol Alt, moglie ricca ma precaria negli affetti, cedeva alle lusinghe di Fabrizio Bentivoglio che collezionava amanti e videocassette delle loro performance, registrate con la telecamera nascosta nel bagno e accompagnate dalle musiche di Phil Collins: tutto molto Eighties, tutto molto yuppie, in un mood da brandy che crea l’atmosfera, con il camino e l’amore sulla coperta di pelo. La vecchia tata milanese anticipava tensioni di là da venire: «Senza di me, tra binghe bonghe, peruviane, filippine cannibali di Capo Verde, questi bambini sarebbero cresciuti con le cotolette di zebra. Invece in questa casa si è continuato a mangiare il risotto». Barbareschi, giornalista di cinema con il cappotto di cammello, faceva coming out e diceva a un giovane e sconosciuto Andrea G. Pinketts (Pinchetti, nei titoli) con i baffoni alla Tom Selleck: «Non ne posso più di quelli come te che hanno studiato, ma appena si parla di froci, giù con le battutacce da caserma. No, i froci non sono così, sono sensibili, più fragili, ma non si sentono inferiori». Il cumenda, al ristorante con la modella, si toglieva il mocassino per fare lo struscio, con il piede fetente in calze di cashmere, replicando la gag con Jerry Calà e «Moira, la mandrilla di Porto Recanati […], tipica marchigiana cabriolet: sempre aperta» sciorinata in una trattoria di Cortina in Vacanze di Natale, quando il Dogui aveva scelto di affidare la moglie Stefania Sandrelli al buon Jerry per provare a togliersi lo sfizio con l’esigente «mandrilla» di cui sopra («Se te chièdo un milione, te sembro esòsa?»).

Vanzina di lotta e di governo, cresciuti a pane e cinema. C’era Daniel Gélin, padre di Maria Schneider. E c’era Marisa Berenson che veniva da Kubrick e Visconti, qui mamma apprensiva con il figlio bambascione. Spietato il papà Renato Scarpa: «Continua a trattarlo così e ci diventa frocio». In principio era stata anche la comicità becera ma non troppo, semmai bambinesca, di Una vacanza bestiale (1980), sempre con i Gatti. Erede delle avventure esotiche, bonariamente erotiche, di Franco e Ciccio e prima ancora di Totò, ma sulla scia del successo della demenzialità americana di L’aereo più pazzo del mondo (1980). Abatantuono terrunciello doppiato chissà perché da Teocoli, quest’ultimo anche venditore di tappeti (a «millo liro», tormentone dell’epoca), Calà taxi driver con cresta e santino di De Niro sul cruscotto, reggiseni usati come fionda. E gli arabi nel night club dove si amoreggia con salami, prosciutti e voglie di barolo sul collo. Il fenomeno Diego degli “spurcellamenti” era comunque durato un lampo. «I nemici dell’effimero possono cantare vittoria» sentenziava già ai tempi Marco Giusti.

I fichissimi (1981) resta un mirabile cazzeggio naïf che proseguiva il fenomeno di La febbre del sabato sera (1977), delle bande giovanili nella giungla metropolitana dei meridionali in trasferta. «Se ti trovo qua ti faccio il culo come il promontorio del Gargano». Abatantuono e Calà, uno contro l’altro praticamente amici sullo sfondo di una commedia giovanilista con un occhio a Romeo e Giulietta e l’altro a Il ras del quartiere (1983). Vanzina e il sesso (a parole): i nudi anche in quell’epoca voyeur sono rari e sempre di sguincio. Qualche topless, nemmeno da vietare ai minori di 14 anni. Diego alla povera Laura Antonelli in Viuuulentemente mia: «Ha ravanato nel mio intimo, lei non sa il rischio che ha corso. Questa è una belva, ci vuole Darix Togni con la sedia e la frusta». Violenza sottoproletaria, quella vista nei film al cinema. Il ras del quartiere cominciava con il padre (Lino Troisi, voce del tenente Kojak) in cerca della figlia come nel romanzo di Giorgio Scerbanenco I milanesi ammazzano al sabato, trasposto in pellicola da Duccio Tessari con La morte risale a ieri sera (1970). Quello di Diego era un guerriero della notte mai andato oltre Lambrate, l’americano a Roma di Sordi, un ras che ha paura di non farsi capire: «Ras non da pederasta, da rasta tipo BobMallo». Ma che qualcuno ai tempi aveva persino preso sul serio, come se la «viuuulenza» di Eccezzziunale… veramente (tra gli incassi top della stagione 1981-1982) potesse davvero fomentare l’odio da stadio. A ricordarlo basta il Boldi con le natiche fuori dal finestrino: «Mi è venuta una strana ruga, una faccia come il culo» dice alla povera anziana in bicicletta di ritorno dalla notte brava con gli amici. E Diego, che crede di aver vinto al Totocalcio: «Cara, mia moglie è una strega e mia suocera è una stronza…».

L’eccesso, il turpiloquio, il doppio e triplo senso sessuale, l’insostenibile inconsistenza dell’essere e del denaro, l’ostentazione, il tragicomico mascheramento yuppie e la malinconica resistenza di sentimenti quali amore e amicizia. In poche parole: Carlo, Enrico e gli anni Ottanta, che per fortuna – e forse purtroppo – non torneranno più.

 

Note

1 Simonelli Giorgio, Cinema a Natale. Da Renoir ai Vanzina, Interlinea, Novara 2008.

2 O’Leary Adam, Fenomenologia del cinepattone, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2013.

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