Il risveglio dell’immaginazione creatrice

Fausto Gianfranceschi
Dino Buzzati – Nostro fantastico quotidiano n. 13/2018
Il risveglio dell’immaginazione creatrice

Nel 1967, per i tipi di Borla, uscì una monografia dal titolo tanto semplice quanto lapidario: Dino Buzzati. L’autore, Fausto Gianfranceschi (1928-2012), non ha bisogno di presentazioni per i lettori di «Antarès». La sua penna acuta, capace di incidere cartografie di paesaggi politici, culturali, filosofici e letterari, si è misurata assiduamente con la meta-letteratura buzzatiana, andando a comporre la prima monografia dedicata alla sua opera, in cui ha individuato quei nuclei tematici di natura prevalentemente mitico-simbolica che hanno fatto da guida alla composizione di questo fascicolo. L’ermeneutica di Gianfranceschi penetra nel testo di Buzzati per ricavarne il non detto o, ancor meglio, il sostrato archetipico. È interessante notare, a scanso di equivoci, come lo scrittore di Belluno, solitamente avverso per via della sua «equazione personale» a ogni forma di critica letteraria, avesse invece apprezzato le riflessioni di Gianfranceschi. Buzzati, che all’epoca aveva superato i sessant’anni, gli scrisse: «L’effetto straordinario che mi ha fatto la lettura del suo lavoro, fra l’altro chiarissimo, ordinatissimo e costruito con la massima logica, ha accresciuto il mio rimorso nell’essere stato scortese nel non leggerlo prima e nel non ringraziarla prima». Aggiungendo: «Lei parla troppo bene di me! […] Racconta, sintetizza nel modo più autentico le mie storie e ne descrive il significato, o meglio la direzione. […] E sono rimasto sinceramente sorpreso, profondamente commosso». Del presente scritto offriamo ai lettori una selezione di passi particolarmente illuminanti. Nella convinzione che la letteratura vada gustata non soltanto attraverso gli attrezzi chirurgici della filologia, ma anche mediante le intuizioni della storia delle idee e con il supporto delle figure proprie alla simbolica tradizionale.

Luca Siniscalco

Buzzati compie un atto audace: mostra come candidato all’inferno l’uomo dell’era scientifica e progressista. Nello stesso tempo indica i sentieri della libertà, attraverso la fantasia e l’intuizione dell’invisibile, con cui possiamo recuperare una sufficiente ampiezza di respiro contro le suggestioni che oggi tentano di condizionarci e soffocarci. Su questo piano l’opera di Buzzati anticipa il graduale risveglio dell’immaginazione antirealista, che ora sta rinnovando la letteratura. Sono le prime avvisaglie di una rivolta psicologica sollecitata dalle esigenze spirituali dell’uomo, il quale aspira a riconquistare la propria interezza contro il materialismo diffuso nella concezione dei rapporti collettivi. È un’esigenza indistinta, perché molti credono tuttora – nonostante l’insofferenza e l’insoddisfazione – che le scoperte scientifiche, i viaggi sulla luna e le pianificazioni sociali possano davvero trasformare gli individui e costringerli ad essere felici dopo aver perso la loro anima. Gli illusi non capiscono che una società perfetta, su questa Terra, sarebbe quella in cui i singoli – i non tecnici, i non esperti, i non specialisti – fossero messi definitivamente a tacere. Il pericolo è nell’aria, si stringe intorno a noi; qualcuno è evaso per primo, altri ne stanno seguendo l’esempio in attesa di raccogliersi con nuovi compagni di fuga, di riconoscersi e di tornare in forze per sconfiggere gli assedianti. […]

1. I luoghi

I luoghi simbolici di Buzzati sono la montagna, il deserto, la città: quasi personaggi che appaiono e ricompaiono con la loro maschera fissa in opere diverse, per indicarne in chiave il comune sottofondo spirituale. Come creature viventi, hanno una loro autonoma sensibilità: «Quando la città, tutta coperta di caldo e polvere, si sente sbagliata e le viene il desiderio di vendicarsi»(1).

Verso questo luogo la disposizione dell’autore è ambivalente. Molto spesso la città è vista quale inferno meccanico, immagine della disperazione o della rabbia malvagia, addirittura sintesi dell’odio umano; ma talvolta diventa accessibile nei suoi angoli patetici, si apre indifesa alla pietà suscitata dalle storie tristi che cova nei suoi recessi e che soltanto con pietà possono essere portate alla luce; si offre persino come nostalgica rassicurazione materna, entità protettrice e dispensatrice di calore, suggestione del ritorno alla culla: «Comparve ai compagni l’immagine della lontana città con i palazzi e le chiese immense, le aeree cupole, i romantici viali lungo il fiume. A quell’ora, pensavano, doveva esserci una sottile nebbia e i fanali davano una tenue luce giallastra, a quell’ora nere coppie per le vie solitarie, grida di cocchieri dinanzi alle vetrate accese dell’Opera, echi di violini e di risa, voci di donna (dai tetri portali delle ricche case), finestre illuminate a incredibili altezze, fra il labirinto dei tetti; l’affascinante città con i loro sogni di giovinezza, le sue ancora sconosciute avventure»(2).

Lontano dalla città sta il deserto. Rappresenta l’ignoto, la molteplicità delle direzioni possibili verso cui avventurarsi o da cui possono sopraggiungere nemici sconosciuti. Nel deserto può esaurirsi ed essere sconfitta la nostra ansia di conoscenza: non basteranno sette messaggeri a cavallo per tenerci in contatto con le piccole cose concrete che abbiamo abbandonato. Nel deserto forse qualcuno ci aspetta per dirci, oppure ripeterci, la buona novella della salvezza. Il deserto fa anche le veci di un altro elemento letterariamente sinonimo di mistero e imprevedibilità assoluta: il mare. Ad esso Buzzati ha dedicato qualche racconto, come Il colombre e La corazzata Tod, ma si avverte che l’autore non è mai stato pienamente investito della sua forza segreta.

Fra queste personificazioni dell’ambiente naturale, di gran lunga la più importante è la montagna. Ad essa l’autore è intimamente legato dai ricordi del paesaggio giovanile, dai periodici e mai interrotti ritorni, da una forse inconsapevole analogia fra le strutture delle sue creazioni letterarie e le emozioni che la montagna effonde.

Molti hanno sperimentato l’azione magica svolta talora, in certe condizioni, dalle più massicce forme della natura. È come un’illuminazione, un satori, come se il mondo si manifestasse all’improvviso senza diaframmi, il mondo quale presenza imponente e totalitaria che assorbe le presenze particolari. Il tessuto delle nostre relazioni, delle nostre mediazioni, che ci permettono di agire ma allo stesso tempo ci difendono, si lacera, o meglio si ritrae in qualcosa di più grande che lo rappresenta nella sua interezza. La nostra attitudine a diluire il peso della vita nel trascorrere dei giorni si rivela allora un’operazione illusoria.

Da tale esperienza scaturiscono moti dell’animo fervidi e malinconici: la paura del tempo, che credevamo di dominare con l’artificio delle lancette e dei calendari, mentre è un’immensità che ci insegue e ci dà scacco in ogni istante; il senso di solitudine di fronte alla vastità e all’inaccessibilità del tutto; il senso dell’attesa di qualcosa che rompa l’incanto dell’inutilità cui ci sentiamo condannati; il senso di un destino più forte di noi, se tanto ci affanniamo e poi scopriamo quanto siamo insignificanti in noi e per noi; il senso di inquietudine per questa nostra pochezza esistenziale; ma anche la spinta – per analogia con la verticalità della montagna – all’elevazione, all’amore, alla speranza, al compimento. Esattamente in questo arco si dispongono i grandi temi della narrativa di Buzzati. […]

2. L’ideologia della morte

Da un labirintico quadro della condizione umana – dove il cacciatore si trasforma in preda, il movimento diventa l’immobilità angosciosa degli incubi, il tempo scorre sul quadrante di un orologio sfrenato – scaturisce una specie di ideologia della morte, non come romantico vagheggiamento, bensì quale ascetica prospettiva, l’unica capace di ridare proporzioni alla confusa commedia della vita. Il colonnello Procolo del Segreto del Bosco Vecchio deve morire perché sia riscattata la sua malvagità contro il nipote Benvenuto. I diversissimi personaggi del racconto La corsa dietro il vento(3), colti ognuno nel ridicolo balletto della loro superbia, ritrovano un’anonima compostezza nella scheda anagrafica dove sono accomunati dalla data del decesso.

Questa suprema virtù ridimensionatrice della morte è acutamente simboleggiata nel brano Mania dei viaggi. Un uomo sente nella notte il fischio di un treno e subito la sua fantasia si scatena nell’immaginare i particolari delle avventure che vivrebbe se salisse su quel convoglio; in altri momenti, gli basta sentire una musica esotica o il rombo di un aereo per perdersi fra le romanzesche chimere di terre lontane. E, quando per lui viene il grande momento, quando è chiamato al viaggio più importante di tutti, quello che conduce più lontano, verso il mistero più oscuro che ci sia, recalcitra, non vuole, si afferra ad ogni appiglio pur di non lasciare la vita, pur di non partire verso l’ignoto nascosto dietro il trapasso; e l’autore commenta: «Oh il pioniere, l’inappagato geografo, il globetrotter, il conquistatore di baiadere, il randagio, il navigante, il pellegrino, oh l’incompreso avventuriero ansioso di lontananze e di destino, così piccolo dunque tu eri?»(4).

Se rappresenta l’unico termine di riferimento valido per ogni vicenda terrena, tuttavia il grande viaggio attraverso la morte non chiude definitivamente i conti con la vita. Nel brano Il primo giorno in Paradiso un’anima crede di essere in cielo e rivisita dolcemente con la memoria i piccoli affanni della trascorsa esistenza, finché le viene rivelata la sua vera condizione: «Sei nella reggia della luce eterna, voli, divori manna, partecipi all’infinito amore. Ma tu non hai dimenticato. Hai la suprema grazia ma ricordi. E ricordando soffri. È il purgatorio»(5).

3. La speranza

Lo schema dei temi più insistenti fin qui delineato parrebbe soffuso di un oscuro pessimismo, se non aggiungessimo che questo è soltanto un aspetto, il cui rovescio ha ugualmente largo spazio nella narrativa di Buzzati, differenziandola dai moduli dell’esistenzialismo senza barlumi di riscatto, per avvicinarla all’esistenzialismo cristiano. La poetica di Buzzati non sarebbe vitale, non avrebbe sostanza senza l’inestinguibile curiosità e commozione dell’autore per i moti, anche impercettibili, che si svolgono nell’animo dell’uomo; quando egli li riporta alla luce, scoprendone le miserie, gli viene spontanea una nota di lirismo dolente, pietoso delle disavventure umane. Da questa compartecipazione sincera, che è carità, nasce la speranza di una salvezza e di una luce possibile. La rinuncia di Bàrnabo e di Drogo, il sacrificio di Procolo, sono autentici atti di fede che sconfiggono le delusioni e le perfidie della vita, che rompono finalmente il cerchio magico degli inganni in cui quei personaggi erano rinchiusi.

Il grande veicolo della speranza è l’amore. Nel bizzarro ma commovente racconto L’uovo(6), l’amore esasperato di una madre per la propria creatura riesce addirittura a mettere fuori combattimento le armate dell’Onu. E anche la passione di Dorigo per Laide ha i suoi lampi di bellezza, le sue illuminazioni: «Era uno squillo lungo di tromba era un’antenna di luce era forse il volo fischiante e selvaggio del macigno che piomba giù a picco nell’abisso e là in fondo si spappolerà ma intanto vive, misericordia di Dio era l’amore»(7).

La forza dell’amore opera i miracoli, come nella gioiosa progressione del frammento 17 maggio 1961(8): un innamorato parte a piedi per andare a trovare la sua donna, e ha tanta fretta che per incanto si trova fra le gambe una bicicletta, poi una moto, infine arriva a bordo di una corazzata che inalbera il gran pavese e spara quaranta colpi di cannone a salve. Insieme all’amore fiorisce anche la fede che, sul piano immanente, si esprime per Buzzati nella certezza che l’arte e la creazione poetica abbiano dinanzi a loro un eterno futuro. […]

4. Meccanica trascendente

La visione magico-ermetica del mondo ha di regola un supporto ideale; non va cioè confusa con un caotico animismo, leggittimatore di qualunque arbitrio o fantastica bizzarria. Nel senso corretto, la fantasia è la potenza dell’immaginazione volta a intuire verità nascoste ma esistenti, per conoscere l’uomo – attraverso, se necessario, forme strambe o mostruose – quale è dentro e non fuori, al contrario della fantasticheria, che rappresenta spesso il sintomo di un male o di una confusione dell’anima che la produce(9).

È stato giustamente notato, ad esempio, che «il mondo di Bosch è propriamente un mondo sistematico»(10): nonostante la violenta ambiguità dei particolari, l’insieme di ogni dipinto ha formalmente un ordine rigoroso; e sostanzialmente le invenzioni deformanti hanno un’univoca ispirazione etica, come denunce delle aberrazioni o simboli che alludono a canoni precisi. Così il neoplatonismo favorisce il rigoglio della fantasia, a patto di un riavvicinamento al mondo cristallino delle idee. Così l’apparente sfrenatezza manieristica e barocca è temperata dal “concettismo”, in un amalgama che conserva ascendenze ermetiche(11).

Altrettanto accade nella narrativa di Buzzati; i suoi simbolismi e le sue allegorie hanno sempre un limpido significato, o una multiformità di significati secondo i livelli di lettura. La sua fantasia non esorbita mai, non è mai disgiunta da un concetto spirituale, da principi e indicazioni ideali che ne sono la sostanza; si fa addirittura calcolo, in funzione di una meccanica trascendente. […]

5. Le coincidenze

L’amore di Buzzati per l’inverosimile è in definitiva l’amore per l’enigma dell’altro uomo, degli altri uomini con i quali viviamo, traffichiamo, ignorandone gli sterminati mondi interiori: «Del restante genere umano non si sa mai niente. L’uomo passa distratto in mezzo a questi infiniti misteri e ciò non sembra poi dispiacergli eccessivamente»(12). Buzzati si stupisce di questa indifferenza perché non riesce a distrarsi. È affascinato e commosso dal segreto del prossimo, e sa che al segreto ci si può avvicinare con gli strumenti di un’immaginazione svincolata dagli schemi fisici.

Oltre alla trasfigurazione nell’inverosimile, un’altra chiave di volta strutturale ricorrente è il tentativo di cogliere le sottili e inavvertite coincidenze che determinano il nostro destino (se non conosciamo gli altri, siamo sconosciuti a noi stessi). C’è una frase tematica che torna insistente, che abbiamo già incontrato e dà il titolo a un libro importante: in quel preciso momento. In quel preciso momento, quando accade una cosa apparentemente piccola di cui non ci accorgiamo, cui non diamo la dovuta importanza, finisce la giovinezza, si decide la catastrofe, l’universo cambia volto…

Anche nella denuncia di questi nessi esistenziali invisibili, che sono il simbolo dell’imprevisto, ci coglie il desiderio di Buzzati di capire, o almeno intuire per analogia, il mistero dell’uomo. Lo stile simbolico-allegorico dell’autore è dunque la parafrasi della sua attitudine alla conoscenza del mondo, non una cerebrale costruzione.

Basta notare la delicatezza con cui egli tratta la realtà, come se fosse un cristallo finissimo che a un tocco più forte s’infrange. In un’epoca in cui tutti sono grandi scultori pronti ad aggredire con martello e scalpello il blocco della storia recente, per dargli le sembianze di cui essi possiedono l’unico calco consacrato, si osservi con quale tatto Buzzati affronta nel frammento Aprile 1945(13) i drammi della guerra e del dopoguerra che egli stesso ha vissuto: li rende per immagini e li rovescia in un paradosso (forse la fine di tante pene è anche la fine di un’età forte), come per confidarci che gli eventi umani, anche quelli più clamorosi, si debbano interpretare soltanto con l’intuizione poetica. […]

6. L’inverosimile

I grandi temi buzzatiani che abbiamo cercato di sceverare rimarrebbero ovviamente sul piano dei concetti, se non ci fosse il modo tipico dell’autore di trasfondere il mondo delle sue idee e sensazioni nella creazione letteraria.

La particolarità strutturale ricorrente nelle pagine di Buzzati è lo scatto di un inverosimile che non ha mai apparenze gratuite (come nel surrealismo) né disperatamente cosmiche, inappellabili e inattingibili (come in Kafka), ma assume il valore di una quarta dimensione che aiuta a capire, che completa il senso dell’approccio a un’esperienza, a un’avventura. Un po’ come accade a quei glottologi che, studiando un linguaggio lontanissimo, si accorgono della sua capacità – proprio perché “inverosimile” rispetto ai nostri moduli mentali – di modificare e ampliare la visione delle cose.

Buzzati non vuole sorprendere grossolanamente con le sue invenzioni e i suoi artifici; li usa con una fantasia fertilissima, ma per condurci subito al loro interno, per mostrarcene gli ingranaggi, per farceli sentire come espressioni di un’ansia che gli urge nel cuore, che solo conta, essendo la conseguenza di una sincera visione del mondo ispirata, sembra, a questa sentenza: «Nel complesso dell’esistente, al non occulto è sempre mescolato l’occulto»(14). Sorretta da un desiderio di penetrante conoscenza, la fantasia di Buzzati non trascolora mai nell’arbitrario o nell’assurdo puro, come accade nei giochi intellettualistici, paradossali e tuttavia cartesiani di un Henri Michaux, che introduce cammelli e pantere nere nelle città ingorgate dal traffico(15). Egli parte da dati di fatto comuni, quelli della realtà con cui tutti abbiamo dimestichezza; l’allucinazione si sviluppa gradatamente, insensibilmente, da premesse psicologiche “accettabili”. I protagonisti delle sue storie sono personaggi normali, e se le cose intorno a loro assumono movenze fantastiche, essi vi scivolano dentro quasi naturalmente.

Note

  1. Dino Buzzati, In quel preciso momento, Mondadori, Milano 1963, p. 81.
  2. Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 1956, p. 82.
  3. Nel volume Sessanta racconti, Mondadori, Milano 1961.
  4. Dino Buzzati, In quel preciso momento, cit., p. 100.
  5. Ivi, p. 58.
  6. Nel volume Il Colombre e altri cinquanta racconti, Mondadori, Milano 1966.
  7. Dino Buzzati, Un amore, Mondadori, Milano 1963, p. 222.
  8. Nel volume In quel preciso momento, cit.
  9. Cfr. Elémire Zolla, Storia del fantasticare, Bompiani, Milano 1964.
  10. Roger Caillois, Au coeur du fantastique, citato in L’Opera completa di Bosch, Rizzoli, Milano 1966, p. 14.
  11. Cfr. Gustav René Hocke, Il manierismo nella letteratura, Il Saggiatore, Milano 1965.
  12. Dino Buzzati, In quel preciso momento, cit., p. 148.
  13. In ibidem.
  14. Cfr. Gustav René Hocke, op. cit., p. 91.
  15. Cfr. Henri Michaux, Altrove, Rizzoli, Milano 1966.

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