Maniaco di cinema. Intervista a William Lustig

Paolo Zelati
William Lustig n. 13/2020

Questa intervista è un reboot, come del resto lo sarà il Maniac Cop serializzato da Nicolas Winding Refn a partire dall’originale firmato William “Bill” Lustig. A una prima versione, realizzata nel giugno 2005, sono seguite infatti numerose aggiunte nei tre anni successivi, confluite nella pubblicazione del secondo cut all’interno del mio volume American Nightmares. Conversazione con i maestri del New Horror Americano (Profondo Rosso Edizioni, 2014). In occasione di questo numero di «INLAND. Quaderni di cinema», l’intervista è stata arricchita da un’ulteriore sessione di dialogo, avvenuta nel dicembre 2019, allo scopo di rendere quel che segue completo e aggiornato. Ecco, dunque, la versione reboot dell’originale, quella definitiva.

Raccontami di questo nuovo progetto per la serie tv Maniac Cop: come stai lavorando con Nicolas Winding Refn e John Hyams?

Dunque, partiamo dall’inizio. Originariamente, ovvero circa cinque anni fa, il progetto prevedeva un remake di Poliziotto sadico (1988) per il cinema, diretto da John Hyams, scritto da Ed Brubaker e prodotto da me e da Nicolas Winding Refn. Poi, a un certo punto, la Wild Bunch, che avrebbe dovuto finanziare il progetto, ha cambiato idea e, anzi, ha smesso del tutto di finanziare film per le sale. Così Nic, che aveva appena realizzato una serie per Amazon (Too Old to Die Young [2019], nda), mi ha proposto di trasformare il progetto in una serie tv. In realtà, riflettendoci sopra, si trattava di un’ipotesi ancora migliore, infatti avremmo potuto raggiungere un pubblico molto più ampio rispetto a quello di un’uscita – per altro oggi sempre più difficoltosa – al cinema. Inoltre, mentre discutevamo di queste cose, Nic venne contattato dalla HBO, che avrebbe voluto fargli dirigere una serie. Ovviamente lui propose immediatamente Maniac Cop e loro accettarono di produrlo senza farci aspettare troppo. Successivamente sono entrati in gioco anche Canal+ e altri due produttori, di altri territori, che stanno per firmare l’accordo proprio in questi giorni. La pre-produzione inizierà fra aprile e maggio 2020, mentre le riprese sono programmate per l’estate; l’idea è di girare a Los Angeles, ma la cosa non è ancora confermata.

Cosa mi dici a proposito della storia? Rimane fedele alla trilogia cinematografica oppure questa sarà presa solo come ispirazione?

I personaggi saranno essenzialmente gli stessi, ma l’approccio alla storia sarà un po’ diverso. Io e Larry [Cohen, nda] all’epoca abbiamo usato molto senso dell’umorismo, mentre Nicolas sarà decisamente più serio. Te lo posso dire con certezza perché le sceneggiature sono già tutte pronte.

Chi ha scritto il progetto? Tu hai partecipato creativamente?

È stato scritto da tre sceneggiatori diversi, più Nic. Io non ho partecipato dall’inizio, ma quando le sceneggiature sono state ultimate ho passato parecchio tempo con Nicolas a leggerle tutte e a fornire i miei suggerimenti, molti dei quali sono poi stati inseriti negli script.

Bill, ti piacerebbe fare il remake di qualche altro tuo film?

Ogni tanto mi viene in mente che mi piacerebbe rifare qualche film, non necessariamente mio [ride, nda]. Comunque, vediamo… Maniac (1980) è stato rifatto, per quanto riguarda Vigilante (1983), be’, non credo si presti così tanto al remake, anche se in Italia e Gran Bretagna so che è uscito un film intitolato Vigilante 21! Hit List. Il primo della lista (1989) penso proprio che vada bene così com’è, anche se all’epoca andai molto vicino a girare un sequel. Senza limiti (1989) ha già avuto tre sequel che, però, non mi hanno visto protagonista, infine Uncle Sam (1996) è un titolo che mi diverte molto, ma che troverei difficile rifare. Vedi, il discorso è semplice: per fare un remake dovrei avere un’idea geniale che migliori l’originale, altrimenti non ci sarebbe nessuna ragione per mettere mano ai vecchi film.

Sono d’accordo con te. Fra tutti i remake che si sono visti in questi ultimi anni, solo pochi vengono giustificati da un’idea che ne valga davvero la pena. Ultimamente credo che solo La bambola assassina (2019) abbia questi requisiti, e forse anche Pet Sematary (2019). Il vero problema è che Hollywood non vuole più investire nemmeno un dollaro in progetti nuovi e originali. La vedo male…

Sì, capisco cosa vuoi dire e hai ragione, però io non la vedo così nera per il futuro. Ogni tanto, infatti, vedo film freschi e originali che continuano ad alimentare la mia speranza di cinefilo.

Fammi qualche esempio.

Il primo che mi viene in mente è Raw. Una cruda verità (2016), l’horror francese. Poi mi ha colpito molto Berberian Sound Studio (2012): l’hai visto? Dovrebbe piacerti, è praticamente un omaggio all’horror italiano.

Sì, l’ho visto, ma si tratta del 2012… Se non mi citi qualcosa di attuale non mi convinci sull’essere ottimista!

[Ride, nda] Certo, hai ragione, allora ti segnalo The Nightshifter, un horror brasiliano del 2018 che me l’ha fatta fare addosso dalla paura, giuro! Questo l’hai visto?

No, ammetto di non conoscerlo.

Ecco, vedi? Recuperalo subito perché è veramente molto bello e spaventoso. In generale, comunque, ho riflettuto sul fatto che le cose che mi piacciono recentemente sono essenzialmente film stranieri, nel senso non statunitensi. Per esempio ho adorato l’australiano Hounds of Love (2016). Insomma, è vero che in giro c’è molta merda, però esistono ancora gemme che mi emozionano e mi danno speranza.

…ma che non vengono da Hollywood: alla fine mi hai dato ragione! Ora però vorrei cambiare argomento. Circa dieci anni fa eravamo a pranzo a Los Angeles e mi avevi raccontato che ti avevano appena contattato per realizzare il remake di Maniac e che volevi andarci cauto per vedere se ne valeva davvero la pena. Partiamo da quel dubbio che avevi e raccontami com’è andata a finire.

Sì, mi ricordo di quando te ne avevo parlato, eravamo da Genghis Cohen e se non mi sbaglio con noi c’era pure Tom Savini. Comunque il discorso è molto semplice: incontrai Elijah Wood solo una volta, andammo a pranzo insieme e rimasi positivamente impressionato dalla serietà del progetto, quindi accettai. Poi il resto del mio coinvolgimento fu visitare il set una volta e… andare all’anteprima! [Ride, nda] Quindi, a parte gli scherzi, il mio apporto attivo al film fu praticamente nullo. Ho pensato da subito che Wood fosse un’ottima scelta come attore protagonista, ma ho odiato a morte la scelta di regia di usare il P.O.V. Io avrei voluto vedere Elija sullo schermo molto di più, trovo frustrante e insensato prendere un’attore di caratura mondiale come lui e poi tenerlo off screen.

Franck Khalfoun è ufficialmente il regista accreditato, però si sente molto il tocco di Alexandre Aja: cosa ne pensi?

Alex era sul set tutti i giorni e quindi è normale che abbia partecipato creativamente anche ad alcune scelte di messa in scena, però ti posso assicurare che il film lo ha diretto Franck. Gliel’ho visto fare!

Certo, ti credo! Ma continuando a parlare di Aja, secondo te cosa gli è successo? È pieno di talento e quando Craven lo ha portato a Hollywood per fare il remake di Le colline hanno gli occhi (2006) sembrava lanciatissimo. Poi è quasi sparito. Cioè, Crawl (2019) mi è piaciuto, però…

Il problema è che questo è un business durissimo e un sacco di progetti e persone scompaiono dall’oggi al domani. Le cose in questo ambiente cambiano in brevissimo tempo e le decisioni di chi è al comando pure. È ormai quasi impossibile pianificare e, spesso, i film che vengono prodotti, vengono prodotti per la ragione sbagliata. Dall’esterno il mondo del cinema può sembrare splendido e facile, ma quando ci sei dentro la vedi differentemente. Puoi investire anni della tua vita in un progetto che poi semplicemente viene cancellato senza nessuna ragione.

Torniamo un po’ indietro: come sei entrato nel mondo del cinema?

Sono entrato dalla porta principale, ovvero marinando la scuola e passando le mattine in una strada di New York chiamata 42ª Strada; un posto che oggi non è più così, ma che allora contava 12 cinema, di quelli old fashion, uno vicino all’altro, che davano tutti gli spaghetti western italiani, i gialli, gli horror, i film di arti marziali… Era veramente un momento esaltante, pieno di film meravigliosi. Mi riferisco alla fine degli anni Sessanta e agli anni Settanta, un periodo incredibilmente florido per il cinema indipendente: pensiamo a titoli come Un uomo da marciapiede (1969), per esempio. Per me quello fu un momento di grande ispirazione. Quando uscivo dal cinema dopo avere visto una pellicola come Gangster Story (1967) dicevo a me stesso: «Voglio fare cinema per riuscire a fare un film così». Un momento che non mi dimenticherò mai fu quando mia mamma mi portò a vedere Agente 007. Missione Goldfinger (1964): avrò avuto una decina d’anni, non di più, e quel film mi sconvolse. Letteralmente! Per mesi non ho parlato d’altro che di James Bond [ride, nda]. Divenni un vero fanatico e mi ricordo che, quando uscì Agente 007. Thunderball (Operazione tuono) (1965), lo vidi sette volte in due settimane. Vivevo in sala. Questa è stata la mia scuola di cinema: anche se avevo quattordici, quindici anni, sapevo già cosa avrei dovuto fare per diventare un regista.

E quale genere di film ti piaceva di più? Sei sempre stato un fan degli horror?

Sì, sono sempre stato un horror fan ma, contemporaneamente, mi diverto un mondo anche guardando un musical di Claude Lelouch! Amo tutti i generi, proprio perché ciò di cui sono innamorato è il cinema in se stesso. Forse gli unici film di cui non sono mai stato un ammiratore sono i drammi in costume, i lunghi epici alla David Lean. Mi divertivo molto di più con il cinema di genere.

Quando hai cominciato a pensare a Maniac?

L’idea di Maniac è nata quando io e Joe Spinell abbiamo deciso che volevamo a tutti i costi fare un horror insieme. Ho incontrato Joe nel 1973, quando lavoravo come assistente alla produzione in Squadra speciale; i due attori principali erano Roy Scheider e Tony Lo Bianco, mentre Joe aveva un interessante ruolo da caratterista. Io e lui diventammo amici grazie alla nostra passione comune per l’horror. Cominciammo a uscire insieme e ad andare nella 42ª a vedere tutti gli horror del momento. Quindi, una sera, decidemmo che era il momento di fare un film e cominciammo anche a scrivere una sceneggiatura che, però, non riuscimmo a finire. Successivamente ci venne l’idea di scrivere un horror puro in cui, però, il focus non fosse sulle vittime e nemmeno sui poliziotti che investigano ma, viceversa, sull’assassino, sul suo punto di vista. Da questa intuizione nacque Maniac e Joe fece un incredibile lavoro di ricerca sulla psicologia dei serial killer, contribuendo – giorno dopo giorno, anche sul set – alla caratterizzazione del suo personaggio. Io, invece, cercavo di mettere nel film un po’ di quelle atmosfere che avevo visto nei film di Dario Argento o di Mario Bava. Volevo fare una specie di omaggio a quel tipo di cinema con il quale ero cresciuto.

Esiste una figura precisa alla quale vi siete ispirati per la caratterizzazione del protagonista?

In realtà no, il protagonista di Maniac è stato connotato mescolando tutta una serie di caratteristiche reali, ma di diversi serial killer realmente esistiti. Diciamo che abbiamo preso un best of [ride, nda] dagli assassini più famosi all’epoca: un po’ di John Wayne Gacy, molto di David Berkowitz, conosciuto come “The Son of Sam”, e poi Henry Lee Lucas, soprattutto nei momenti in cui il personaggio parla degli abusi subiti durante la sua infanzia.

Raccontami quello che ti ricordi a proposito delle riprese del film.

Come prima cosa, mi ricordo che l’abbiamo girato praticamente senza soldi [ride, nda]. Il nostro budget era di 40mila dollari, somma che abbiamo tirato fuori dalle tasche io, Joe Spinell e Andy Garroni. Per cui mi ricordo tutti i tentativi fatti per creare un discreto production value in un film per il quale non potevamo spendere praticamente niente. Però eravamo motivati e decisi a raggiungere lo scopo a qualunque costo. La prima sfida che dovemmo affrontare fu quella degli attori perché, ovviamente, non potevamo permetterci le tariffe sindacali fissate dalla Screen Actor Guild (SAG). Così, cercando alternative, abbiamo esaminato molto bene i contratti standard e ci siamo accorti di un piccolo codicillo secondo cui la SAG non aveva nessuna giurisdizione sui film porno. Immediatamente, io e Joe ci siamo messi a scrivere per Maniac il copione più estremo e pornografico che mente umana poteva concepire! [Ride, nda] Mi ricordo che Joe aveva scritto una scena in cui metteva la testa tra le gambe di una donna tenendo una pinza tra i denti e… ti lascio immaginare! Insomma, roba veramente orribile! Quindi mandammo lo script alla SAG la quale, come previsto, ci comunicò di non voler avere nulla a che fare con quella roba. Grazie a ciò potemmo mettere sotto contratto chi volevamo, compreso Joe Spinell. Qualche tempo dopo l’uscita del film, ricevetti una telefonata dalla SAG in cui mi fecero notare che non mi ero comportato proprio correttamente [ride, nda]…

E come hai gestito tutte le scene in esterno?

Ecco: quella fu la seconda grande sfida. Soprattutto quando dovevamo girare in luoghi, come la metropolitana, che necessitavano di costosissime coperture assicurative. Per cui, proprio per girare in metro senza problemi, abbiamo assunto un poliziotto in pensione in modo che, in divisa, controllasse le riprese facendo sembrare che tutto fosse in regola, quando invece non avevamo nemmeno uno straccio di permesso. Se la polizia si avvicinava al set, lui addirittura la teneva lontana, mentre noi continuavamo a girare senza sosta! …mi sono divertito un sacco a girare Maniac! Un’altra storia divertente è legata alla scena in cui esplode la testa di Tom Savini. Per girarla siamo andati, di notte, vicino a un’autostrada sotto al ponte di Verrazzano e abbiamo usato un fucile vero, cosa altamente illegale: a New York non puoi sparare con nessun tipo di arma da fuoco senza prima chiedere il permesso! Per cui, sul set abbiamo tenuto un furgone con il motore acceso e, immediatamente dopo avere sparato, abbiamo buttato il fucile nel vano e abbiamo urlato all’autista: «Vai, scappa nel New Jersey!» [Ride, nda] Poi, dopo avere girato la scena in cui il cervello viene spiaccicato dentro la macchina, ci siamo accorti che sarebbero serviti altri primi piani dell’interno e della ragazza che, nel frattempo, se n’era andata. Ovviamente non potevamo pulire la macchina e, allora, uno dei nostri assistenti alla produzione ha pensato di guidarla fino a casa. Così, nel cuore della notte, si è messo al volante di un’auto che aveva un grosso foro di proiettile nel parabrezza e tutto l’interno coperto di sangue e cervello. Naturalmente è stato fermato dalla polizia e ha dovuto sudare sette camicie per convincerli che era tutto finto. Le riprese del film, rigorosamente senza permessi, sono state un continuo di episodi di questo tipo.

Maniac e altri tuoi film, come Poliziotto sadico e Vigilante, possono essere visti come un ritratto del loro tempo, di una società – quella urbana degli anni Settanta – violenta e decisamente fuori controllo. Quanto c’è di conscio in tutto questo?

Quando ero ragazzino, a New York, lavoravo come fattorino, portavo in giro lettere e pacchi per la città molto prima di Federal Express e gli altri. Così passavo molto tempo per strada, negli autobus o nelle metropolitane. Pensavo, riflettevo e mi venivano tantissime idee da mettere in un film, persino con i movimenti di macchina che sarebbero serviti per girarle. Per esempio, la scena della metropolitana in Maniac viene da una mia esperienza personale; un giorno mi trovai imprigionato lì sotto e subito pensai: «Dio, cosa succederebbe se fossi inseguito da qualcuno e non potessi uscire?!». La stessa cosa posso dirla anche per Vigilante o Poliziotto sadico: molte scene, in quei film, derivano da esperienze personali, da spunti presi dalla strada. Inoltre, c’è da dire che, all’epoca in cui ho girato i miei film, New York aveva un tasso di criminalità altissimo, cosa che oggi, invece, è cambiata. Senza alcun dubbio tutto ciò ha influenzato quello che poi si vede nelle mie pellicole. Vivere a New York negli anni Settanta e Ottanta poteva essere veramente inquietante. Anche solo lungo il tratto di strada che facevo per venire in ufficio, non hai idea da quante persone potevo essere fermato; e questa situazione è proseguita fino all’arrivo di Giuliani, il quale alla fine degli anni Ottanta ha cambiato la situazione. Per cui la risposta è sicuramente affermativa: la violenza che vedi in Maniac e negli altri miei film è sicuramente lo specchio di una società violenta. Inoltre, dal punto di vista stilistico, li ho tutti realizzati dopo Il mucchio selvaggio (1969), titolo spartiacque che cambiò l’approccio alla rappresentazione cinematografica della violenza, rendendola grafica ed esplicita.

Pensi che oggi questo tipo di sottotesto sociale legato alla violenza abbia ancora effetto sul pubblico statunitense?

Non credo. Infatti, da allora, le paure dei cittadini americani sono cambiate. Nessuno ha veramente paura dei serial killer o di essere aggredito per strada. I timori, oggi, riguardano il terrorismo e la situazione economica. La gente è spaventata e in attesa di quello che considera come un inevitabile “prossimo 11 settembre”. Ieri sono andato in un negozio vicino a casa e ho visto che vendevano un misuratore di radiazioni portatile! Cristo Santo… [Ride, nda]

Vigilante è un film estremo nel rappresentare la violenza metropolitana. Che tipo di influenza ha avuto Il giustiziere della notte (1974), pellicola nella quale, se non sbaglio, tu eri coinvolto…?

Ero coinvolto, ma in maniera molto marginale. Il mio ruolo, infatti, era quello di sincronizzare l’audio e il video dei daily alla fine della giornata di riprese e poi portarli ai montatori. Per quanto riguarda l’estremismo di Vigilante, credo che fosse una conditio sine qua non in quel tipo di cinema: essendo strutturato su una vendetta metropolitana, i cattivi dovevano essere per forza caratterizzati nel modo più crudo possibile, bisognava “caricare” il pubblico e farglieli odiare in vista della catarsi finale. L’influenza di Il giustiziere della notte è ovvia anche se, all’epoca, il film di Michael Winner (che è stato il primo della serie) aveva già ispirato parecchi imitatori, soprattutto in Europa. E sono stati proprio i polizieschi e i western italiani, impregnati di violenza, a influenzarmi per Vigilante. In altre parole, quel film era la mia versione urbana di uno spaghetti western di, per esempio, Corbucci. Se ci fai caso, infatti, i cattivi ricordano gli indiani e la musica è nettamente ispirata alle sonorità di Ennio Morricone.

Parlami di Joe Spinell, un personaggio molto controverso, grande attore, di spiccata sensibilità, ma anche con dei lati oscuri…

Sì, Joe Spinell è stato una figura tragica. Morto troppo giovane, a 52 anni, nel 1989. Io lo conoscevo molto bene e ti posso dire che, nonostante fosse una persona intelligente, aveva anche una personalità autodistruttiva: eccedeva nell’alcol e nella droga in modo incontrollato e, praticamente, si può dire che si sia suicidato conducendo quel tipo di vita. La cosa triste è che era un attore di straordinario talento, con una capacità incredibile di socializzare e capire le persone. Nel documentario che ho prodotto per il dvd di Maniac ho tentato di fare un ritratto di Joe, cercando proprio di mettere in luce questo suo strepitoso talento recitativo.

Com’è cambiata la tua vita dopo avere diretto Maniac?

Quando ho diretto Maniac avevo ventiquattro anni e, di sicuro, quell’esperienza mi ha cambiato la vita. Nonostante, quando si ha quell’età, la vita cambi ed evolva in modo naturale quasi tutti i giorni, il fatto di avere diretto un film, di avere conseguito e concretizzato un risultato praticamente con niente, partendo da zero, è stato un evento fortemente significativo che mi ha dato forza per tutta la vita. Infatti nei momenti di sconforto, sia nella mia attività di regista che di produttore di home video con la Blue Underground, pensare di essere riuscito a fare Maniac mi dà la forza per superare le avversità.

Fammi capire, però, una cosa: dove hai imparato a fare cinema? Cioè, guardare i film sulla 42ª strada è una cosa, ma hai frequentato qualche scuola per imparare la tecnica, la gestione di un set e tutto il resto?

Scuola poca, giusto un paio di semestri, ma la cosa che mi ha veramente aiutato a imparare il mestiere del cinema è stata quando, da ragazzo, ho lavorato in uno studio di post-produzione in cui si montavano trailer, documentari, spot pubblicitari e lungometraggi a basso budget: lì, davvero, ho studiato il cinema e la sua tecnica meglio che in qualunque scuola. Inoltre guardavo tantissimi film in 16 mm e li studiavo a fondo, scena per scena, per capire come si fosse potuto ottenere, tecnicamente, un particolare effetto. Una volta ho preso una copia 16 mm di Bullitt (1968), sono andato in sala di montaggio e ho analizzato la sequenza dell’inseguimento in macchina fotogramma per fotogramma: volevo capire i meccanismi coinvolti nell’ottenere un momento così bello e avvincente. Infine, in queste mie ricerche, ho scoperto un segreto: per imparare davvero un sacco di cose sulla regia, la recitazione, il montaggio, occorre guardare un film senz’audio; non hai idea delle cose che si imparano!

Ho letto un’intervista dove dichiari che è stata soprattutto la tua esperienza nel porno a insegnarti tutto su come si gira un film e sul business che ci ruota attorno.

Certo, te lo confermo. All’epoca, infatti, l’industria del porno era in salute e i film si giravano ancora in 35 mm, su un vero set, con attori professionisti e, soprattutto, con storie e sceneggiature. Oggi i porno sono solo i gonzo girati con l’iPhone per strada, in mezz’ora e con chiunque capiti in quel momento! [Ride, nda] Io, invece, ho imparato tutto sull’equipaggiamento tecnico che serviva per girare un film low budget, ho imparato a gestire il tempo sul set e a girare in fretta senza fare casino. Questa fu un’esperienza essenziale per la mai carriera di regista: è nel porno che ho imparato la disciplina e a utilizzare gli elementi tecnici che consentono di raccontare una storia. Molti miei amici, che poi hanno lavorato nel cinema, cominciarono così e poi passarono come me ai film di exploitation. All’epoca, infatti, non c’era grande differenza in termini di budget, distribuzione e produzione tra il porno e l’exploitation.

E per quanto tempo hai lavorato nell’industria pornografica?

Fammi pensare… Credo dal 1971 al 1977. E ho imparato davvero tutto, dalla fotografia al suono, fino all’arte del montaggio.

Praticamente fino all’uscita di The Violation of Claudia (1977)?

Esatto. La cosa divertente è che quando girai quel film usai un titolo di lavorazione molto blando – penso fosse The Lady in the Afternoon – in modo da non insospettire il laboratorio di edizione. Quando il film fu terminato mi serviva un bel titolo a effetto, così andai in una libreria per adulti e chiesi al commesso: «Qual è il libro più venduto del mese?». Lui mi rispose che era un romanzetto porno intitolato The Violation of Marcy, così decisi di usarlo adattandolo, ovviamente, al nome della protagonista del mio film.

Come sei arrivato a fare Poliziotto sadico?

L’idea venne a Larry Cohen, nel 1987. All’epoca mi stavo preparando per trasferirmi da New York a Los Angeles e andai a pranzo con Larry. Mentre mangiavamo, lui mi chiese come mai non avessi mai pensato a girare un sequel di Maniac. Io risposi semplicemente che secondo me quello era un film che non aveva bisogno di un sequel, che semplicemente non ci si prestava. Dopo qualche minuto Larry mi disse: «E allora come lo vedi un Maniac Cop?». All’epoca RopoCop (1987) era appena uscito, ottenendo un grandissimo successo, e così il titolo Maniac Cop (titolo originale, ndr) mi sembrò subito geniale. Lui, poi, aggiunse: «E il poliziotto protagonista dirà cose del tipo: “Hai il diritto di rimanere in silenzio… per sempre”». Io lo guardai e gli dissi: «Larry: abbiamo un film, andiamo a girare!». Ed effettivamente, un mese dopo, eravamo già sul set. Io avevo chiamato Bruce Campbell, Sam Raimi e soci e ho detto loro che avevo un film intitolato Maniac Cop, che non avevo ancora uno straccio di sceneggiatura ma che volevo assolutamente girarlo a New York il giorno di San Patrizio, in occasione della parata della polizia. Ho detto a Bruce: «Voi ragazzi venite a New York e tu ricordati di indossare dei vestiti che poi io possa utilizzare per il film». Successivamente ho cominciato a scrivere insieme a Larry una sceneggiatura: io a Los Angeles e lui a New York, ci spedivamo fax tutto il giorno con pagine dello script fino a quando, nel marzo 1987, abbiamo cominciato a girare senza nemmeno una sceneggiatura completa.

I film della trilogia di Maniac Cop hanno un unico, apparente, filo conduttore: l’enfasi grottesca sulla violenza della polizia. Però mi sembra di capire che di questa tematica te ne importasse poco quando li hai girati…

Sì e no: quando ho concepito Poliziotto sadico, l’idea di fondo di tutta l’operazione era di sovvertire il normale ordine prestabilito, essendo proiettati in un universo in cui colui che doveva essere il simbolo della sicurezza in realtà diventava un pericolo mortale. Pensavo che fosse una cosa divertente perché, nel momento in cui ribalti le regole di tutti i giorni, allora puoi anche vedere le cose da un altro punto di vista.

Prima hai detto che non hai mai avuto intenzione di fare un sequel di Maniac, però so che Joe Spinell lo ha sempre voluto fare. Cos’è successo?

Sì, è vero, Joe aveva questo progetto ma io non ci credevo. Così, a un certo punto, ho venduto i diritti del film a un socio di Joe. Ma quando mancavano tre o quattro settimane all’inizio delle riprese, Joe è morto.

Quindi non è mai stato girato nulla?

In realtà Joe e Buddy Giovanazzo avevano girato una specie di promo per Maniac 2, ma comunque si trattava di qualcosa di completamente diverso da ciò che Joe aveva in mente per il sequel, e che avrebbe girato se non fosse mancato. Detto questo, il progetto di Maniac 2 è morto insieme a lui.

Parlando di sequel, cosa mi dici di Maniac Cop. Il poliziotto maniaco (1990)?

La sceneggiatura di Maniac Cop 2 (titolo originale, ndr) era sicuramente migliore di quella del primo. Larry, infatti, era riuscito in ciò che credevo impossibile: prendere la storia di Poliziotto sadico e trasformarla in un film più grande, sviluppato e importante. Ero veramente eccitato all’idea di girare questa pellicola, perché non si trattava assolutamente di un sequel che facevo solo per soldi: ci credevo proprio ed ero entusiasta di avere l’opportunità di fare qualcosa di speciale. Anche perché avevamo il supporto dei distributori, i quali avevano incassato tantissimi soldi con il primo capitolo e ora ci consentivano di farne un altro con un budget di quattro volte superiore. Quindi ho riunito la mia squadra, con la quale avevo già realizzato quattro film, e abbiamo girato il sequel, di cui sono fiero ancora oggi.

Mentre, invece, so che sei meno fiero di Maniac Cop 3. Il distintivo del silenzio

Sì, anche perché quello era un film nel quale, all’epoca, nessuno di noi credeva davvero. L’abbiamo fatto solo per i soldi. Io e Larry non eravamo nemmeno coinvolti direttamente nella produzione, perché i produttori e i finanziatori avevano idee completamente diverse dalle nostre: volevano fare tutto un altro genere di film e, perciò, dopo avere litigato parecchio, abbiamo perso interesse e ci siamo limitati a prendere i soldi dei diritti.

Chi ha inventato il personaggio di Cordell, con le sue caratteristiche?

Devo ammettere che il vero creatore di Maniac Cop, sia della storia sia dei personaggi, è Larry Cohen. Io ci ho solo messo la manodopera [ride, nda].

Un altro film che mi ha sempre divertito è Uncle Sam. Come è nato questo progetto?

Anche in questo caso c’è lo zampino di Larry Cohen, che mi continuava a parlare – con molto trasporto – di questo film che avrebbe voluto ambientare il 4 di luglio. Devo dire che all’inizio non riuscivo proprio a farmelo piacere: non ci vedevo le premesse per un film. Poi sono andato in vacanza a Nashville e ho passato là il giorno dell’Indipendenza, rendendomi conto per la prima volta di quanto è importante questa festività per i cittadini statunitensi che non vivono a New York o a Los Angeles. Contemporaneamente ho cominciato a vedere I segreti di Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost. Ora, non so se tu riesci a vedere il collegamento fra Uncle Sam e I segreti di Twin Peaks [ride, nda], ma ti assicuro che quando ho girato il film ho cercato di basarmi sul modo di approcciare i luoghi e i personaggi che avevo visto in quella serie tv. Lo so che sembra strano, anche perché la connessione non la vedo nemmeno io, ma all’epoca la pensavo così. Inoltre, un’altra fonte di ispirazione furono i film di Val Lewton girati per la RKO negli anni Quaranta, in cui tutto era ambiguo e la minaccia era praticamente invisibile. Comunque, ammetto che il film non è venuto proprio come speravo o come me l’ero immaginato: ci sono momenti interessanti ma, nel complesso, non credo funzioni molto.

Quindi, alla base di Uncle Sam, non c’è la voglia di parlare del Vietnam, del Medio Oriente e del senso di colpa di una nazione ferita?

No, però ti posso dire, in questo senso, che mentre giravo ho pensato molto al film di Bob Clark La morte dietro la porta (1972), tanto che avrei voluto chiudere Uncle Sam con lo stesso finale. La mia idea era un po’ più elaborata, ma volevo realizzare una scena al cimitero con il ragazzo sulla tomba dello zio, proprio come la madre di Andy in La morte dietro la porta. Mi sarei ispirato, iconograficamente, ai vecchi fumetti horror della E.C. Comics e avrei fatto resuscitare Sam con il corpo diviso a metà, ciondolante fra le lapidi.

E invece il finale è diventato una specie di omaggio a Lucio Fulci e al suo Paura nella città dei morti viventi (1980)…

Esatto. Lucio è morto proprio mentre eravamo in pre-produzione e, quindi, la scena finale in cui lasciamo intendere che lo spirito dello zio entra nel ragazzo era una strizzata d’occhio, un omaggio a Paura nella città dei morti viventi. Io amo l’horror italiano e chiunque mi conosce sa che ne parlo sempre e lo cito come una tra le mie principali influenze. Per esempio, adoro Dario Argento. Quando oggi rivedo i suoi film, mi accorgo di quanto, inconsciamente, alcune scene mi abbiano influenzato quando ho girato i miei.

Raccontami qualcosa a proposito di Tom Savini e del suo lavoro su Maniac.

Lavorare con lui è stata un’esperienza grandiosa. Ci siamo divertiti un sacco, anche a causa dei vari imprevisti di cui ti accennavo prima, ma devo dire che lui è decisamente bravo nel suo lavoro e, in più, è un grande professionista, cosa non così scontata. Dopo avere lavorato con Tom, e fino a quando non ho collaborato con la KNB in Maniac Cop 3. Il distintivo del silenzio, ho avuto una serie di esperienze non sempre positive in termini di make-up ed effetti speciali.

Parliamo di Hit List. Il primo della lista, film di cui magari, rispetto a Maniac, si parla poco, ma che ha ancora una grande fanbase.

È vero, incontro spesso gente che mi fa i complimenti per quel film! All’inizio Hit List era uno script d’azione che avevamo preparato per essere girato in Sudafrica. La storia era basata sul film di Kurosawa Anatomia di un rapimento (1963). Quindi andai in Sudafrica e cominciai la pre-produzione, ma quando la situazione interna peggiorò e venne dichiarato lo stato di emergenza dovetti chiudere tutto e tornare negli States. Fortunatamente, però, venni contattato dalla Cinetel Films, che voleva realizzare un film d’azione. Così rimettemmo mano allo script di Hit List e, togliendo ogni riferimento al Sudafrica, lo finanziarono e lo girammo subito. Per me non si trattava di un progetto di passione o altro, ma semplicemente ci tenevo a realizzare un buon film d’azione e, anche grazie a ottimi attori, credo di esserci riuscito. Certo, Jan-Michael Vincent fu un calvario…

Ti volevo proprio chiedere come sei riuscito a gestirlo sul set. Si dice fosse sempre sotto l’influsso di sostanze, sempre fucked up

Oh certo, completamente fucked up, era un alcolizzato. Però, in realtà, la cosa l’ho gestita in modo semplice: il primo giorno di riprese si è presentato sul set ed era ovvio che aveva bevuto. Poi dopo due giorni piuttosto imbarazzanti divenne ovvio che era sempre ubriaco. A quel punto era molto probabile che la produzione lo avrebbe potuto cacciare via per sostituirlo con un altro attore. Quindi, per mettermi al sicuro, dal terzo giorno di riprese cominciai a girare solo scene in cui non doveva interagire; oppure primi piani, così se fosse stato cacciato non avrei dovuto rigirare troppo. Questa situazione, però, durò solo un paio di giorni, perché poi qualcuno della produzione gli fece una bella lavata di capo… Anzi, gliela fece fare addosso dalla paura, probabilmente, perché dal giorno seguente si dette una regolata e riuscì a finire il film senza problemi.

Hai avuto problemi simili con altri attori nel corso della tua carriera?

Be’, Joe Spinell come sai beveva, però con lui era un’altra cosa, si trattava di un bevitore “funzionale” [ride, nda]: difficilmente perdeva il controllo e ancora più difficilmente sul lavoro.

In Hit List hai lavorato con uno dei miti assoluti del cinema di genere statunitense, Lance Henriksen. È vero che si immedesimava talmente nel suo personaggio dal mantenerlo perfino fuori dal set?

Mi chiedi se è vero? Immaginati questa scena: sono le 23.30 e io sono a letto mezzo addormentato, anzi, completamente addormentato. Improvvisamente squilla il telefono, rispondo e sento una voce che mi sussurra: «Ehi fratello, ci sei?»; io dico: «Ma chi parla?»; e dall’altra parte sento: «Sono Lance… Mi è venuto in mente come posso uccidere quel tizio nella scena di domani, ora te lo spiego» [ride, nda]… Ma ti rendi conto?

Mitico. Un altro attore con cui hai lavorato parecchio è Leo Rossi.

Leo è un amico, abbiamo sempre lavorato benissimo insieme. Sia di Hit List che di Senza limiti le uniche cose che ricordo sono le risate e gli scherzi che ci facevamo io, lui e il cameraman Jimmy Lemmo. Ci siamo divertiti. Poi, ovviamente, è un ottimo attore. Credo che il suo ruolo migliore lo abbia interpretato in Maniac Cop. Poliziotto maniaco, e lo sai quali sono state le mie uniche indicazioni di regia? «Tu devi fare come Bela Lugosi in Il Figlio di Frankenstein (1939)… Sarai il mio Ygor!».

Direi che ti ha preso alla lettera! Un’altra scena che coinvolge Leo avviene in tribunale, quando gli fai pronunciare la frase satirica «I say No to Drugs». La dobbiamo intendere come una tua presa in giro verso l’inutile e ridicola campagna di Nancy Reagan contro la droga?

Ci puoi scommettere! [Ride, nda] All’epoca gli americani trafficavano con i Narcos ed entrava tanta di quella cocaina che non ci si poteva credere, mentre la campagna presidenziale consisteva nel mostrare un cartello con scritto: «Io dico No alla droga». Andiamo…

Bill, parlami dell’epilogo, l’inseguimento in macchina, una tra le scene più belle di Hit List.

Per la prima volta nella mia carriera avevo tre crews che giravano in una volta. Durante l’inseguimento nel garage correvo da una all’altra e ognuna girava un pezzo diverso: non mi sono mai divertito tanto. Poi, tra l’altro, quello era l’ultimo giorno di riprese e come accade sempre nelle produzioni low budget eravamo in super ritardo e tutti agitati. A un certo punto uno dei cameraman comincia a ridere, a scherzare, come se non avesse assolutamente voglia di lavorare. Sai chi era? Janusz Kaminski, quello che da lì a poco sarebbe andato a girare Schindler’s List (1993) con Steven Spielberg! Riesci a crederci?

Diciamo che lo hai svezzato bene! Ora ti voglio chiedere di due citazioni che ho riconosciuto nel film: la prima riguarda il primo omicidio di Lance in prigione, quando pugnala il tizio e lo lascia appeso alle sbarre, una scena che rimanda direttamente a Halloween. La notte delle streghe (1978). La seconda riguarda la fine, con il passaggio del fucile che avviene tra i due poliziotti prima che sparino a Lance: l’ho interpretata come un omaggio diretto a Un dollaro d’onore (1959).

Ti dico una cosa: in entrambi i casi è verissimo, ma l’ho scoperto dopo! Nel senso che sono state citazioni inconsce, da cinefilo incallito che rielabora senza rendersene conto [ride, nda]. Però, rivedendo il film, ne ho preso coscienza.

Com’è nato il progetto di Senza limiti?

Una volta terminato Hit List, mi sono messo a lavorare su Maniac Cop. Poliziotto maniaco in associazione con la Shapiro-Glickenhaus. Un giorno, durante una riunione, uno dei produttori della Shapiro mi ha dato da leggere un copione intitolato The Sunset Killer, che mi è piaciuto molto. Il giorno dopo l’ho portato a quelli della Cinetel che, in 24 ore, hanno deciso di produrre il film.

Il killer protagonista è uno psicopatico che uccide con modalità molto disturbanti e le cui motivazioni sono legate a un trauma infantile che ricorda il Joseph Zito di Maniac

Sì, credo che sia un assassino piuttosto inquietante anche grazie alla splendida interpretazione di Judd Nelson, che lavora soprattutto sul piano espressivo. Per quanto riguarda il parallelo con Maniac, credo che alla base delle motivazioni di ogni serial killer ci sia un trauma infantile. Quindi, quando fai un film sui serial killer, è una caratterizzazione quasi obbligata, difficile venire fuori con qualcosa di originale…

L’ultima frase – in cui il poliziotto, ispezionando la casa del killer, commenta: «E pensare che suo padre era un poliziotto» – diventa molto metaforica, soprattutto alla luce della saga di Maniac Cop. Non sembra correre buon sangue fra Bill Lustig e la polizia…

[Ride, nda] Non è vero! Ho uno splendido rapporto con i poliziotti, tanto più che mio fratello è un procuratore distrettuale e ha persino partecipato a Poliziotto sadico.

Hai un buon ricordo del periodo passato sul set di Senza limiti?

Si, un buonissimo ricordo. Mi sono divertito, non abbiamo avuto nessun problema produttivo e, soprattutto, ero contornato da gente fantastica. Difficilmente le cose vanno così bene su un set. Inoltre avevo a disposizione splendidi attori come Meg Foster, Robert Loggia e tanti altri.

Il film ha avuto tre sequel, ma tu non sei stato coinvolto. Come mai?

Inizialmente mi avevano chiesto di dirigere il sequel e io avevo chiamato Quentin Tarantino, che era fan del primo film, per lavorare insieme sulla sceneggiatura. Lui aveva accettato, credo fosse il 1990, però poi io lessi lo script di Una vita al massimo (1993) e decisi che era quello che volevo fare. Così chiamai Quentin, opzionai lo script e mollai il progetto del sequel.

So che Una vita al massimo è per te un tasto dolente. Anche perché ho scoperto che quel finale delirante sulla spiaggia l’hai scritto tu.

Sì, l’ho scritto io, ma è colpevole anche Roger Avary perché era con me, a casa mia. Quello che successe con Una vita al massimo non fu una bella cosa, perlomeno dal mio punto di vista. Quentin Tarantino mi aveva proposto di fare il film e io avevo accettato perché mi piaceva molto lo script. Stavo lavorando da parecchio tempo sulla revisione insieme a Roger Avary e avevamo appena iniziato la pre-produzione, quando Tony Scott si dichiarò interessato al progetto. Quindi, da un giorno all’altro, fui liquidato. Fu una cosa molto dolorosa da sopportare e comunque, quando vidi il film, rimasi scioccato dal fatto che il finale fosse ancora quello che io e Roger avevamo scritto in cinque minuti solo come “alternativa” al tragico epilogo originale in cui Clarence moriva. La cosa serviva perché, quando devi vendere un film, un finale con il protagonista che muore non è mai facile da piazzare. Quindi noi scrivemmo quella stronzata orribile di loro due sulla spiaggia, con il figlio Elvis che correva, e non avrei mai creduto che Tony Scott l’avrebbe tenuta. Quando l’ho vista ho chiamato subito Roger e… non ci potevamo credere! [Ride, nda]

L’enorme delusione patita a causa di Una vita al massimo ti ha portato a cambiare strada nel tuo percorso professionale; strada che ti ha condotto alla creazione della Blue Underground. Raccontami tutto.

Sono sempre stato un avido collezionista di cinema, prima in vhs e poi in laser disc. Mentre viaggiavo per fare i miei film, come hobby ho cominciato ad acquisire i diritti di alcune opere che mi piacevano, per poi farle uscire in laser disc. Per un periodo facevo entrambe le cose e poi, quando sono arrivati sul mercato i dvd, ho cominciato seriamente a pensare di spostare le mie energie nel campo dell’home entertainment. Così ho cominciato a lavorare per la Anchor Bay comprando un sacco di film di genere e, come sai, soprattutto italiani…

Ovviamente!

…e comunque stava diventando veramente un business serio e interessante. Poi, durante i primi anni Novanta, era chiaro come il presidente della società avesse deciso di vendere la Anchor Bay. Così divenni indipendente e creai la Blue Underground. Da allora non ho più smesso.

Tra i titoli che hai distribuito – e continui a migliorare, con edizioni e restauri sontuosi – risaltano quelli di Jess Franco e Dario Argento. Sei fan di entrambi?

Per quanto riguarda Jess Franco ho paura che ti dovrò deludere, nel senso che ho distribuito un sacco di suoi film perché li trovo interessanti e commercialmente funzionano, ma non posso dichiararmi un suo grande estimatore. Su Dario Argento, invece, non mi nascondo: sono assolutamente un suo fan.

Qual è il suo film che ami di più?

Senza dubbio Profondo rosso (1975).

Ora ricordo! L’ultima volta che siamo andati a pranzo, io te e Dario ci siamo scontrati su questo perché io, invece, sono un “Suspiriano”!

[Ride, nda] Già, è vero! Comunque credo che Suspiria (1977) sia uno splendido film e non dico che Profondo rosso sia un film “migliore”. Però, soggettivamente, possiede sequenze, immagini e atmosfere che non mi sono più uscite dalla mente da quando lo vidi per la prima volta.

L’hai visto nei cinema della mitica 42ª strada?

Probabilmente sì, però non ne sono sicuro, anche perché il film ebbe una distribuzione piuttosto vasta e quindi posso anche averlo visto in qualche sala tradizionale.

Però so che, oltre a Dario, tu ami molto il giallo all’italiana in generale.

Oh, certo, lo adoro. Splendide atmosfere, colonne sonore eccezionali e tanto altro ancora. Faccio fatica a ricordarmi i titoli… Vediamo… Sicuramente i film di Sergio Martino, poi ti posso citare Chi l’ha vista morire (1972).

Sì, grande film! A proposito di Aldo Lado, lo sai che la prima volta che ho visto L’ultimo treno della notte (1975) in versione uncut è stato grazie a uno dei primi dvd che hai fatto con la Blue Underground?

Oh, quello è un film che amo molto. Ed è vero, noi fummo i primi, credo, a distribuirlo uncut.

Poi non possiamo non parlare di Lucio Fulci, altro regista italiano al quale hai dedicato tantissime edizioni.

Sì, amo molto i film di Fulci e mi ricordo quando ti ho mandato a Roma insieme a Jim Kunz a fare le interviste per Paura nella città dei morti viventi e Quella villa accanto al cimitero (1981). Credo sia venuta fuori una cosa divertente…

Io di sicuro mi sono molto divertito…

A questo proposito ti segnalo che sto per fare uscire una nuova versione di Quella villa accanto al cimitero, completamente restaurata: si vede in modo superbo!

Cosa pensi del genere mondo movie?

Li trovo interessanti, curiosi… Ma non è il genere di film che riguarderei più di una volta. Arrivo a dirti che, quando ho fatto uscire il cofanetto dedicato ai mondo, la cosa più interessante credo fosse il documentario! [Ride, nda]

Sempre restando in tema: se tu potessi fare il remake di un film italiano di genere, quale sarebbe?

Oddio, questa è una domanda tosta [ride, nda]. Ce ne sono talmente tanti, che faccio veramente fatica a risponderti. Anzi ti rispondo, ma non si tratterebbe di un remake, bensì di un sequel! Ho sempre pensato a quanto sarebbe stato bello girare un sequel di Zombi 2 di Fulci (1979) a New York, con i morti viventi che invadono la città come nel poster italiano!

 

Note

1 Il riferimento è a Il cittadino si ribella di Enzo G. Castellari (1974).

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