Fred Williamson, vigilante e corifeo. La tragedia dei giustizieri della notte
Marco Sansiveri«Voi direte: ma c’è la polizia, la magistratura, i tribunali, le prigioni. Ma non servono a niente. Qui i conti non tornano. Qui funzionano solo le statistiche». Risulta definitivo questo stralcio di pàrodos, il programmatico canto d’ingresso di Vigilante, tragedia newyorkese di William Lustig che, nel 1983, dopo la scioccante parabola di Maniac (1980), riesce a mettere in scena «Something real, a hardcore street crime film»1, come lo ha definito Richard Vetere, colui che lo ha pensato, lo ha sofferto e lo ha infine scritto.
«Vigilante è stata l’occasione, per me, di partecipare alla scrittura del monologo iniziale. Lustig mi disse che aveva intenzione di girare un film che trattasse l’argomento dei vigilanti, così gli ho semplicemente detto di iniziarlo usando la mia immagine per aprire il film nella maniera giusta. Esco da una stanza buia e inizio a sbraitare contro un mucchio di persone, spiegando loro come doversi riprendere la città. Ero io che utilizzavo la mia immagine, in modo da essere veicolo perfetto per me stesso»2: la voce del coro, dei vigilantes che accompagnano, assistono e determinano la vicenda del protagonista Robert Forster, è quella di Fred Williamson, corifeo che quasi sempre – proprio come accade durante il monologo iniziale – dialoga con gli attori, e quindi con il pubblico, in rappresentanza e per conto di tutto il coro.
Nella tragedia sociopolitica in atto nella città di New York tra gli anni Settanta e Ottanta, nel pandemonium criminale proliferante nel terreno di coltura dell’indifferenza delle autorità e della popolazione, tra il collasso delle istituzioni e dei nervi dei cittadini, Williamson è emblema del vigilantismo, di quella tradizione cinematografica che sgorga dritta dal Paul Kersey di Il giustiziere della notte di Michael Winner (1974), attecchisce rapidamente intorbidandosi da un lato e dall’altro dell’Atlantico e in Williamson (e nel suo coro) perde definitivamente quello strato zuccheroso celante la realtà, riflettendo l’archetipo di una categoria che trova nelle sue origini proletarie la forma e gli intenti più puri e necessari.
Lustig ha sempre dichiarato di essersi ispirato agli epigoni europei, soprattutto italiani, di Il giustiziere della notte, di aver voluto realizzare «An urban spaghetti western»3 viscerale e partecipe della realtà brutta, sporca e cattiva di una città in bancarotta letterale e spirituale, in cui lo sfruttamento del quadro poteva e voleva essere soverchiante rispetto a una discussione critica sul tema.
Ecco dunque che Williamson e gli ex poliziotti suoi sodali proliferano come sottoprodotto revanscista di una classe sociale operaia – gemelli eterozigoti dei criminali che intendono combattere, occupanti il medesimo utero metropolitano – laddove l’ingegner Paul Kersey interpretato da Bronson o, meglio ancora, l’ingegner Antonelli di Il cittadino si ribella (1974), l’ingegner Alessi di Roma, l’altra faccia della violenza (1976) e l’ingegner Vannucchi di L’uomo della strada fa giustizia (1975) riflettono invece l’esasperazione di una borghesia agiata, privata improvvisamente della dignità o recisa negli affetti e intenta a fare giustizia da sé più per un riordino di valori culturali ed economici non adeguatamente tutelati dalle forze dell’ordine che per un incontrovertibile istinto di solidarietà e sopravvivenza.
E proprio il film di Lenzi è quello le cui dinamiche narrative più si avvicinano alla discesa agli inferi del Nick di Robert Forster, che come Davide Vannucchi perde il figlio per mano di una gang criminale ed esattamente come lui rifiuta in un primo momento l’aiuto dei vigilantes, del coro, di Fred Williamson riapparso durante i funerali del piccolo assassinato a offrire i propri servigi per una giustizia rapida e pienamente catartica.
Nella figura di Williamson, così ontologicamente diversa dai sovversivi politici dell’Anonima Anticrimine guidata dall’ex questore Stolfi in La polizia ringrazia (1972) o dai “cittadini coscienziosi” dell’avvocato Sartori, per lo più anch’essi benestanti, cui si unisce con convinzione l’ex commissario Betti in Roma violenta (1975), convivono allo stesso tempo Riflessione (Canto) e Azione (Danza), proprio come in un coro.
Riflessione morale. Come nel citato prologo («Bene, se il governo se ne infischia di proteggerci sapete cosa vi dico? Che quest’obbligo morale tocca a noi, l’obbligo di proteggere la nostra esistenza») e come durante il dialogo sulla terrazza del palazzo di giustizia, dopo i colloqui tra Forster e il procuratore («Coraggio Eddie, tieni duro, resisti. Chiudilo tu il conto, ti farà sentire meglio, vedrai…»; e anche riferendosi alla pistola che si porta appresso: «È lei il mio ordine e il mio giudice»). O come più avanti, dopo la rottura di Forster con la moglie e il tentativo di abbandonare tutto per fuggire e nascondersi, quando il monito del corifeo Williamson nella sua ultima apparizione suona come dichiarazione programmatica ed epitaffio di tutto il film: «Se non ci ribelliamo scapperemo per tutta la vita […]. Questa città è nostra e se gliela lasceremo non avremo più niente. Dobbiamo lottare, per sopravvivere».
Azione come quella che coinvolge i vigilantes, azione autonoma, slegata dalla linea narrativa principale, libera, abbondante e senza un filo di ironia: Williamson ne incarna l’essenza nella lunga serie di sequenze che va dall’inseguimento dello spacciatore interpretato dall’amico Frank Pesce (il quale ha affermato di essere stato anche il responsabile del coinvolgimento di Williamson nel progetto del film arruolandolo in un bar di Los Angeles, cosa che l’attore afroamericano racconta in maniera un po’ diversa: «Non ricordo come sono stato coinvolto e non me ne frega niente!»4) alla scena con Horace, lo sfruttatore, all’esecuzione dell’uomo d’affari di origine portoricane al vertice delle attività criminali fin lì collegate. Le azioni di Williamson e seguaci – cellule immunitarie anormali, leucemiche, di un organismo malato – sono lì a creare il contesto in cui non si può più solo subire, pronte a intersecare la vicenda di Forster nel momento in cui la corruzione e il malfunzionamento del sistema giudiziario ne lasciano impunito l’omicidio del figlio e forzano il protagonista a ritornare proprio da Williamson, per sibilare quel «Voglio ammazzarlo» assoluto e definitivo, riferito a Melendez.
L’azione dei vigilantes accompagna quindi la vendetta di Forster, la comprende, la asseconda, ne partecipa molto più di quanto non succeda in L’uomo della strada fa giustizia, con una carica di normalità patologica che nessuna organizzazione posta in essere da poteri più o meno forti e più o meno celati può neanche sognarsi, senza peraltro usufruire del filtro del reducismo che, quando è presente – come per esempio in Rolling Thunder di John Flynn (1977) o Exterminator di James Glickenhaus (1980) – tipizza in maniera determinante l’azione del giustiziere trasformandola in qualcosa di altro. Vigilante riprende e al contempo si distacca dai modelli italiani, pur omaggiandoli qui e là (l’uccisione del figlio di Forster che guarda al Giulio Sacchi infanticida di Milano odia: la polizia non può sparare [1974]; l’inseguimento durante il prefinale tra Forster in vettura e Don Blakely a piedi che richiama quello, celeberrimo, di Il cittadino si ribella) proprio nella descrizione e nel ruolo della squadra di Williamson, così strutturale nell’intelaiatura del film da diventare essa stessa il film – insieme, luogo e testo. Tanto da rendere il personaggio di Forster un Bronson senza glorificazione, tanto da rendere agghiacciante una normalità senza possibilità di catarsi, potentemente raffigurata dall’éxodos della detonazione della macchina del giudice, realizzata dal solo Forster oramai in tutto e per tutto entrato a far parte del coro, pronto ad assumersi il ruolo di corifeo alla stregua dell’imprescindibile Williamson.
Note
1 Richard Vetere in Blick Bill, Getting even: Interview with Richard Vetere, screenwriter of the ultimate 80’s revenge flick Vigilante, pubblicato su cinemaretro.com.
2 Fred Williamson in Danna Corey, Fred Williamson interview, pubblicato su theactionelite.com.
3 William Lustig in Faraci Devin, The Badass Interview: William Lustig director of MANIAC and VIGILANTE, pubblicato su birthmoviesdeath.com.
4 Fred Williamson in William Lustig, Robert Forster and company on the making of Vigilante, pubblicato su theultimaterabbit.com.