More Human than Human. L'impero dei segni di Rob Zombie

Giona A. Nazzaro
Rob Zombie n. 1/2015
More Human than Human. L'impero dei segni di Rob Zombie

Nel momento di transizione fra la prima metà degli anni Settanta e l’inizio della decade successiva, si verifica l’ultima grande rivoluzione collettiva dell’horror inteso anche come fenomeno politico. Che il genere sia ormai insofferente alle cripte anguste e polverose dei serial Universal popolati da vampiri e lupi mannari lo si è compreso senza ombra di dubbio con La notte dei morti viventi (1968) di George A. Romero, horror agit-prop contro la guerra in Vietnam girato come se Raoul Coutard si fosse trovato nella giungla circondato da zombi. Con un film che, tra l’altro, segna anche la fine dello studio system tradizionale, Romero apre il campo del genere a uno spettro di possibilità inedite che si ritrova, nell’arco degli anni Settanta, teso fra autentici capisaldi come Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper e produzioni radicali e innovative come L’esorcista (1973) di William Friedkin – che, di fatto, inaugura il concetto di blockbuster (intuizione ripresa poi genialmente da Steven Spielberg con Lo squalo [1975]). Il divario produttivo tra le pellicole di Friedkin e Hooper segnala che l’horror è ormai al di fuori della nicchia vittoriana che costituisce il framework dei serial Universal. Non meraviglia, quindi, se alla fine del decennio, con Alien (1979) di Ridley Scott, si assiste alll’ultima grande rivoluzione analogica del genere. Il castello diventa un’astronave, ma c’è sempre un mostro che si aggira nei cunicoli. Alien, con la sua creatura che viene da dentro, rielabora in un colpo solo tutto l’immaginario collettivo dell’horror e della fantascienza, spalancando le porte su un panorama culturale completamente nuovo. L’intuizione di Rick Baker e di Friedkin, messa a punto con spietata determinazione in L’esorcista, diventa la premessa operativa per una stagione di sperimentazione breve ma intensissima, che si concluderà con i flop di La cosa di John Carpenter (1982), Il bacio della pantera di Paul Schrader (1982) e Videodrome di David Cronenberg (1983). Il cosiddetto horror a vista, che porta alla luce trasformazioni sino a quel momento dominate dalla dissolvenza incrociata, segnala che il genere è diventato laico, materialista. I lupi mannari di Dante e Landis hanno più cose in comune con i freak di Leslie Fiedler che con Lon Chaney. Questa significativa variazione d’immaginario, che rivela fra l’altro il talento del truccatore ed effettista Rob Bottin, giunge al suo apogeo con La cosa, rifacimento corporeo del classico di Christian Nyby e Howard Hawks. L’horror, in quella manciata di anni, conquista una nuova posizione per lo sguardo. E anche se gli studio corrono subito ai ripari, l’ultima grande rivoluzione analogica del genere, verificatasi alle soglie del digitale, lascia dietro di sé una lezione etica e politica di straordinaria influenza. Una fame di nuovo. Il 18 ottobre del 1985 Robert Bartleh Cummings autoproduce il primo EP dei White Zombie, band all’epoca ancora improntata a un noise-rock di matrice newyorkese, nella scia dei Pussy Galore di Jon Spencer. Il nome del gruppo è ispirato direttamente al film diretto da Victor Halperin nel 1932, interpretato da Bela Lugosi. White Zombie, il film, vanta una tagline di quelle che si marchiano a fuoco nell’immaginario collettivo: With these zombie eyes he rendered her powerless. With this zombie grip he made her perform his every desire! Il titolo dell’EP avrebbe a sua volta potuto essere benissimo quello di un horror a basso costo: Gods on Voodoo Moon. È un esordio leggendario – del quale si vocifera siano state stampate appena 300 copie, di cui 200 sarebbero ancora nelle mani degli ex membri della band – che permette ai White Zombie di farsi un nome nei circuiti più loschi dell’underground. Insomma, mentre l’horror “ufficiale” si rifugia nella politica dei sequel posizionandosi a un livello anagrafico strettamente adolescenziale, Rob Zombie (che per un periodo si è fatto chiamare Rob “Dirt” Straker) effettua una geniale inversione a U e, di fatto, anticipa una pratica cinefila che sarebbe poi stata canonizzata (nel senso di strutturata in un canone fruibile) da una rivista come «Cult Movies», interamente votata al recupero e alla valorizzazione di oscuri b-movie. Piuttosto che restare nel recinto dell’ammesso, Zombie abbraccia il rimosso, il dimenticato. Compie una vera e propria operazione di modernariato, piuttosto che di antiquariato. La sua interdisciplinarietà, per utilizzare un termine altisonante, nella quale s’intrecciano fumetti, cinema e rock’n’roll, è in realtà l’Eden dei teenager di provincia (non di quelli anestetizzati dai sequel) che la scaltra intelligenza grafica di Zombie riformula in un’estetica compiuta, filologicamente attendibile. Al punto che si continua a pensare a Zombie non come a un creatore che ha messo in piedi un intero universo segnico e poetico coerente, ma solo come a un abile riciclatore. Come a dire che la creazione ha oscurato il creatore. Come a dire che il mostro si è preso il nome del suo creatore: Frankenstein. Basta invece dare uno sguardo ai pochi numeri della sua «Zombie Zine», creata come fanzine promozionale per i White Zombie, per comprendere come gli inserti pubblicitari, le locandine di film dimenticati, le pin-up sequestrate da chissà quali oscure riviste porno, gli occhialini a raggi X e le sex dolls siano parte integrante di un tessuto immaginario povero. Un progetto di rifondazione che sta al cinema horror esattamente come i Ramones stanno al punk. Si tratta in entrambi i casi di un ritorno alle origini, di una volontà palingenetica e, se si vuole, di un rifiuto netto dell’idea di una presunta modernità cui si oppone una ferocia lo-fi che si rivela essere, osservando da vicino, un progetto estetico e politico. Come quello dei Cramps, d’altronde, anche loro drogati di bianco e nero e mostri analogici. Zombie fa parte di quei rivoluzionari manieristi talmente innamorati dei segni che iniettano nell’oggi, da evocare il ricordo dei luoghi di un sentire non adulterato e, addirittura, da assurgere – in virtù della loro visionaria convinzione e forza – al ruolo di creatori. In questo senso tutta la prima parte della sua carriera musicale, quella con i White Zombie, si offre oggi al nostro sguardo retrospettivo come l’incubazione di un progetto che il lavoro collettivo di una tradizionale rock band non poteva contenere. I titoli delle canzoni – Grindhouse (A Go-Go), Acid Flesh, Die Zombie Die (scelte a caso fra i primi tre vinili della band) – sembrano evocare le delizie proibite dei film di Barry Mahon, che si presentano a loro volta come Good Time with a Bad Girl, The Beast that Killed Women, Nudes on Tiger Reef e Pagan Island, tanto per citare solo i più evocativi. Come per il più consumato degli schlockmeister, l’aggressione sonora della band è rielaborata in una mitologia di segni che con essa dialoga instancabilmente creando, così, un fertile cortocircuito con un mondo arcaico, per la maggior parte in bianco e nero, di immagini consumate alla tv, in cinema di quinta categoria, da vhs di fortuna. Una combinazione irresistibile se si pensa che già all’altezza di Psycho-Head Blowout – terzo e ultimo EP per la Silent Explosion, prima del passaggio alla Caroline – un Kurt Cobain pre-Nirvana dichiara la sua stima per la band di Zombie. Un’apparente contraddizione, fecondissima, per una band che s’innesta nel solco della tradizione glam – dagli Slade agli Sweet, passando per Alice Cooper, i Tubes e i Kiss, senza dimenticare l’approccio noise di Pussy Galore e simili – abbracciando, però, un immaginario fieramente e settariamente retrò, lontanissimo dalla musica proposta, che pone di fatto le basi per quello che sarà l’universo cinematografico di Rob Zombie (il quale di recente si è anche concesso il lusso tarantiniano di citare i suoi film muti preferiti, dimostrando così di essere in possesso di una cinefilia molto più esoterica e raffinata di quanto comunemente si immagini). Insomma, quando giravano i White Zombie non si parlava ancora di quella «perdita di tempo» (la definizione è di Mojo) che è stato il nu-metal. Raramente, però, il metal è stato nu e divertente e aperto come nel caso dei White Zombie. Anni dopo, intervistandolo per l’uscita di Hellbilly Deluxe 2, mi diceva al telefono dall’altro capo del mondo: «Quando faccio un film lo penso quasi sempre in termini musicali». Più chiaro di così. Se i White Zombie sono incubazione, la carriera solista è la prova generale di un cinema ancora da venire. Il successo in solitaria conferma la posizione privilegiata di Zombie rispetto all’universo dell’heavy metal. Heavy metal meticcio, che si è messo alle spalle definitivamente i rumorismi degli esordi, che guarda all’impatto ritmico dell’hip-hop, proponendosi come una specie di antidoto glocale di massa alla globalizzazione dei suoni. Rob Zombie continua la sua immersione verticale nel cinema. La sua figura scenica, lungocrinita come quella di un predicatore saltato fuori dalle pagine di un racconto dimenticato di Flannery O’Connor, richiama quella di Zé do Caixao e, naturalmente, un qualche discendente di Ed Gein o di Leatherface. I video promozionali li realizza da qualche tempo per conto suo come per riscaldare i muscoli, ma è l’esito di La casa dei 1000 corpi a cambiare definitivamente le carte in tavola. Sorto da una lavorazione difficoltosa e da numerose incomprensioni con la produzione, il film delude molti anche se retrospettivamente, alla luce degli esiti successivi, conquista una sua dignità e necessità. A una prima visione, il neo-regista fa la figura del fan che non riesce a dare corpo e senso ai suoi feticci. Alcune punte di sadismo genuino lasciano l’amaro in bocca per quel che il film avrebbe potuto essere. Al suo attivo un ritratto non banale di un’America polverosa, di provincia, redneck, cattiva. Si capisce che Zombie possiede un occhio attento. Anche se l’opera è sbilenca, sghemba, i dettagli fanno la differenza. E che Zombie sia un regista anche in grado di ascoltare quando la critica lo massacra, lo si comprende con La casa del diavolo, sequel solo nominale del suo esordio. Come un Tobe Hooper andato a scuola da Peckinpah, Zombie mette da parte il piacere del secondo grado per immergersi in un paesaggio western brutale, autentico, messo in scena senza alcuna complicità citazionista. L’America white trash rifulge in tutto il suo nero splendore corrotto e blasfemo. Con una precisione documentaria. Il male colpisce duro e fa male. Il regista dimostra di conoscere bene ciò che racconta: il suo stile filmico, maturato in maniera impensabile nell’arco di un solo titolo, trova una sua dignità settantesca nient’affatto derivativa. E fra il sangue, le urla e il furore, emerge fiero un sentire schiettamente southern rock. «Be’, non è un mistero che amo il rock sudista. I Lynyrd Skynyrd sono una delle mie band preferite. Si tratta di musica che ho sempre amato e che mi piace introdurre nelle mie canzoni». E nei film, aggiungiamo noi, come dimostra il finale assolutamente impagabile di La casa del diavolo. Quest’ultimo è il film che conferma come Zombie sia diventato finalmente un cineasta a tutti gli effetti. Viene da pensare proprio a certi punk o rumoristi ai quali, scorticata via la ribalda crosta di ferraglia e rumori assortiti, spunta un’anima da rocker degna di Robert Gordon. «Io adoro la musica garage degli anni Sessanta», ci spiega Zombie. «Mi piace da morire il suono di quei dischi ruvidi, diretti e così low-fi degli anni Sessanta e Settanta. Tutto il contrario della musica attuale, leccata e curata in ogni dettaglio». Appunto. Nel desiderio di Zombie di essere riconosciuto come un cineasta a tutto tondo risuona anche l’orgoglio di essere considerato un musicista autentico e non un fenomeno da baraccone. Il successo non ha messo a tacere un’ansia di riscatto che, nel suo caso, si trasforma in una vera e propria etica del lavoro. «Ciò che mi sta a cuore è essere un musicista rock a tutti gli effetti. Molte band attuali hanno dimenticato questa semplice componente della musica rock. I metallari sono sempre negativi. I grungers sempre sull’orlo del suicidio. Io voglio invece recuperare una dimensione da rock band classica. Come lo erano i Mott The Hoople. Oggi molte band metal sono pesantissime e cattive ma non hanno groove. I miei modelli sono altri. Alice Cooper, gli Slade, i T. Rex». È evidente come le dichiarazioni riguardanti la musica possano essere spostate o applicate al cinema. Al fondo in Zombie c’è questa esigenza di non essere più considerato una novelty, ma un “classico”. «Non sono un amante del metal in particolare. Io amo il rock. Nella mia band non ci sono metallari di stretta osservanza. Siamo tutti rockettari. Ci piace la musica tosta ma che abbia un tiro e un ritmo». E ancora: «Quello che adoro dei Rolling Stones è che quando li vedi ridono sempre. A loro piace essere delle rockstar. Si divertono a essere la più grande rock band del mondo». In questo senso il percorso di Zombie sembra muoversi al contrario. Nonostante il successo, l’autore ha pensato bene di radicarsi, piuttosto che espandersi, anche se non ha disdegnato la regia di un episodio di CSI: Miami. E ha dato libero sfogo al suo lato più irriverente e anarcoide con The Haunted World of El Superbeasto, un folle cartone animato a base di wrestler porno-attori, nazisti, mostri, pin-up e altro ancora. In scena, come musicista, ha trasformato il proprio live-act in un vero e proprio carnival intitolato The Zombie Horror Picture Show, rielaborazione originale degli stageshow di Alice Cooper e Kiss (ai quali si aggiungerebbero volentieri i Rammstein) probabilmente in omaggio ai suoi genitori. La maturazione di Zombie cineasta si compie definitivamente nell’arco dei due Halloween – nonostante tutti i problemi relativi alla lavorazione del primo e alle incomprensioni con cui è stato accolto il secondo – e, soprattutto, in Le streghe di Salem, senz’altro, a oggi, il suo film più importante e compiuto. Come in un processo di progressiva rarefazione, Zombie elimina le scorie sensazionaliste del suo cinema (o almeno quelle che gli si rimproverano come tali) per arretrare verso un registro schiettamente settantesco che, soprattutto nel sequel di Halloween e in Le streghe di Salem, rielabora in forme assolutamente originali persino la lezione di Kenneth Anger (un “satanico” per definizione). Oggi Zombie, nel panorama statunitense, occupa insieme a Quentin Tarantino – che però gode di un credito critico infinitamente maggiore – un ruolo da peculiarissimo “guardiano della tradizione”, pur essendo considerato dalla grande maggioranza della critica un casseur, teppista del cinema incolto e volgare. Basterebbe osservare la galleria di volti che popolano la sua filmografia per affermare che Zombie è una specie di lifer (ergastolano) del cinema di serie B. Come se Roger Corman, Bela Lugosi, Tobe Hooper, George A. Romero, Todd Browning, Lon Chaney e James Whale si fossero fusi nel corpo e nella musica di Jerry Lee Lewis, icona per eccellenza di un sentire sudista in perenne lotta fra il Paradiso e l’Inferno. Ed è proprio questa energia, che si potrebbe misurare nel wattaggio di un Marshall a tutto volume, che ha fatto la forza dell’artista e ora gli permette persino di modularla in forme inedite. Lasciando a noi il piacere di scoprire, anche in futuro, le avventure (non solo) cinematografiche di Rob Zombie.

 

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