Werewolf Women of the SS. «Howl baby howl!»

Roberto Curti
Rob Zombie Reloaded n. 8/2019
Werewolf Women of the SS. «Howl baby howl!»

Inizialmente, a occuparsi dei finti trailer destinati ad accompagnare i due segmenti del progetto Grindhouse avrebbero dovuto essere i soli Quentin Tarantino e Robert Rodriguez. Ma il primo passa la mano e il secondo si concentra su Machete (2010): salgono a bordo Eli Roth (con lo slasher Thanksgiving) e Edgar Wright (Don’t, sullo stile degli Hammer e Amicus anni Settanta). L’ultimo ad aggregarsi è Rob Zombie, al quale basta pronunciare il titolo per avere carta bianca da Rodriguez. Con Werewolf Women of the SS, il regista di Haverhill pesca nel torbido, evocando le atmosfere e l’immaginario di uno dei filoni più malfamati nutriti in seno alla cinematografia di (o de)genere, il nazi-erotico: da Camp 7 lager femminile di R. Lee Frost (1968) in avanti, passando per il trittico inaugurato da Ilsa la belva delle SS di Don Edmonds (1974) fino ai miserrimi plagi italici a firma Bruno Mattei (KZ9 lager di sterminio, 1976), Luigi Batzella (La bestia in calore, 1976) e Sergio Garrone (Lager SSadis Kastrat Kommandantur, 1976). Se gli altri due registi girano solo lo stretto necessario, Zombie accumula materiale per un corto di mezz’ora, sfrondato e stipato nei 105 secondi a disposizione. Il plot, o ciò che ne fa le veci, riguarderebbe «i diabolici piani di Hitler per creare una razza di superdonne» nel fantomatico Death Camp 13, comandato da uno spiritato colonnello con mad doctor deforme alle dipendenze: non è necessario sapere altro per godersi la sciamannata sciarada congegnata dal regista. Che conosce bene la materia e imbastisce un impossibile crossover tra vecchio e nuovo mondo, l’exploitation yankee del cialtronesco produttore Bob Cresse e quella teutonica del non meno scaltro Erwin Dietrich, la maggiorata nazista Dyanne Thorne e le anonime starlette dei film di recupero della francese Eurociné, le atrocità para-sadiane perpetrate nei set dismessi della serie tv Gli eroi di Hogan da Edmonds e quelle inscenate alla periferia di Roma da Mattei e Garrone. Con un pizzico di autorialità decadente, tra Cabaret (1972), Salon Kitty (1975) e Il portiere di notte (1974), e un tocco fetish da rivista sado-porno patinata (le nazistelle in topless, reggicalze e maschere antigas, Sheri Moon Zombie che impugna un gatto a nove code). Ma c’è di più. Se le premesse sono imbevute di quella cinefilia fanzinara che ha spesso inquinato le falde sommerse della settima arte a colpi di riscoperte camp e pressapochismo a-storico, e la forma è caratterizzata dagli usuali graffi finto-vintage, dai colori saturi e dalle zoomate selvagge di prammatica, Zombie ha dalla sua un gusto innato per il mash-up concettuale che rende il giochino meno stucchevole del previsto. Come negli aberranti e a loro modo ameni esperimenti dei medicastri nazisti nei modelli evocati, procede per esprit de finesse, cucendo sullo scheletro del plot una ridda di escrescenze cinefile tanto improbabili quanto gustose, nello spirito malandrino di quell’exploitation che omaggia. Iniziando dall’idea di base, geniale nella sua demenza: prendere alla lettera l’appellativo (She Wolf) appiccicato all’aguzzina nazista per eccellenza, Ilsa. Se lupa dev’essere, perché non mannara? E, con piglio da sei gradi di separazione, ecco spuntare due comparse strategicamente ricoperte di peli come Annik Borel nell’impagabile opera di Rino Di Silvestro (La lupa mannara, 1976). Con un cortocircuito cinefilo vertiginoso, le due lupacchiotte si accompagnano a un uomo-lupo in uniforme nazi che imbraccia il mitra come nella sequenza onirica di Un lupo mannaro americano a Londra (1981), mentre una trasformazione licantropica ha luogo all’interno di un ibrido tra una macchina orgonica e il dispositivo per il teletrasporto di La mosca (1986). E se a fare da contorno all’immarcescibile Udo Kier ritroviamo – armati di improbabili accenti teutonici – i volti-feticcio Tom Towles e Bill Moseley e la moglie musa, è una bella trovata il recupero di Sybil Danning, indimenticata donna-lupo nel dimenticabilissimo Howling II. L’ululato (1986). Ma il meglio arriva alla fine, con la comparsa di Nicolas Cage, perfettamente calato nello spirito dello scherzaccio, che interpreta un Fu Manchu degno di rivaleggiare con il Christopher Lee delle produzioni di Harry Alan Towers dirette da Jesús Franco. Come per l’immortale genio del male di Sax Rohmer, il mondo sentirà ancora parlare di Werewolf Women of the SS: il Blu-ray Usa di Grindhouse ne regala una director’s cut di ben 5 minuti, che però annacqua la verve dell’originale tra immagini di repertorio e un numero musicale di Sheri Moon in versione simil-fassbinderiana. Zombie, invece, si prenderà lo sfizio di riesumare il suo film fantasma, con tanto di frammento audio del trailer come incipit, nel brano omonimo dell’album Hellbilly Deluxe 2.

Cast & Credits

Titolo originale: Werewolf Women of the SS; regia: Rob Zombie; sceneggiatura: Rob Zombie; fotografia: Phil Parmet; montaggio: Glenn Garland; musiche: Tyler Bates; interpreti: Nicolas Cage (Fu Manchu), Udo Kier (Franz Hess), Sheri Moon Zombie (Eva Krupp), Tom Towles (tenente Boorman), Sybil Danning (Gretchen Krupp), Bill Moseley (Dr. Heinrich von Strasser); origine: Usa, 2007; durata: 2’/5’ (director’s cut); home video: dvd e Blu-ray di Grindhouse, Warner Home Video (versione director’s cut nel Blu-ray Usa, Vivendi Entertainment); colonna sonora: Werewolf Women of the SS, traccia n.10 dell’album Hellbilly Deluxe 2, Roadrunner.

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