I have a nightmare. Fantasmi sociopolitici e crimini visibili dall’America allo Zombie

Anton Giulio Mancino
Rob Zombie Reloaded n. 8/2019
I have a nightmare. Fantasmi sociopolitici e crimini visibili dall’America allo Zombie

«Se qualche stronzo crede che noi siamo le forze del male, ebbene, noi lo saremo»

(Mick Jagger)

Un autore consapevole dei propri strumenti espressivi, di un vasto repertorio di riferimento, delle prospettive di un discorso che si articola lungo la traiettoria dei generi, di solito gioca a carte scoperte. Dal principio. Prova ne è il film d’esordio di Rob Zombie, La casa dei 1000 corpi, in cui si legge «God is dead» sul pannello montato su un pick-up che viaggia nella direzione opposta a quella del gruppo di giovani e incauti ragazzi in automobile, candidati esemplari della mattanza. Siamo in Texas, alla vigilia di Halloween. Per l’esattezza nel 1977, non a caso l’anno che precede l’uscita in sala del genealogico Halloween. La notte delle streghe di John Carpenter. Ebbene, uno di questi malcapitati, convinto che il Male possa essere appena una curiosità pruriginosa, un argomento di conversazione o un eccentrico divertimento, sfogliando una rivista commenta, a quasi un decennio di distanza dalla strage di Bel Air nella villa Polanski: «Alcune prede di [Marylin] Manson erano davvero belle». E non si rende conto che si sta già scavando la fossa, con le proprie mani o le proprie parole allusive, non fa differenza. Guarda caso «Manson fu il sanguinoso preambolo di quattro importanti ossessioni dell’ultimo ventennio: il satanismo moderno, il rock satanico, il filone nero delle leggende contemporanee e la fenomenologia dei “serial killer”»(1). Poi, volendo con i suoi amici raccogliere materiale per una guida turistica sulle stravaganze della provincia americana, l’antipatico, improvvisato reporter rivolge fin troppe attenzioni al bizzarro clown Captain Spaulding. Gli chiede ripetutamente da quando gestisce lo sperduto esercizio commerciale che è nel contempo un museo degli orrori, un take-away di pollo fritto e un distributore di benzina. Spaulding, snervato dall’insistenza, risponde: «Ho preso il posto di mio padre subito dopo che il Duca [The Duke] ha vinto l’Oscar». E lo sbarbatello: «Si riferisce a John Wayne?». Da non credersi: «Perché, figliolo, conosci forse qualche altro Duca? Il più grande americano di tutti i tempi». Ma il giovanotto rincara la dose: «Sì, ma non sono un grande appassionato di western». Peccato per lui, perché avrebbe capito che ogni azione violenta e risolutiva nel repertorio di “Duke” Wayne nasceva come reazione, da leggersi anche in chiave ideologica, a ogni sorta di provocazione od offesa. E con le sue domande l’incauto bamboccio sta offendendo il sinistro interlocutore, il quale porta tatuata sul braccio l’icona wayniana e indossa una t-shirt con scritto «Pig is beautiful», che rimanda al messaggio lasciato dalla family di Manson sulla scena del delitto il 9 agosto del 1969: «Pig». Con il fuoco non si scherza, sembra avvisare. Già, perché, come ricordano Arona e Panizza nel loro fondamentale Satana ti vuole, proprio «la strage di villa Polanski ha dato la stura a molti altri delitti, numerosi dei quali accaduti in California, ricavandone la convinzione che, se per molti fatti di sangue esiste un’ipotesi “epidemiologica” (serial killer che uccidono per imitazione di omicidi famosi), la pista più credibile è quella del cult crime model, lo schema dell’assassinio rituale che si può applicare sia ai delitti compiuti da membri di sette diverse in apparente collegamento fra di loro, sia agli omicidi portati a compimento da singoli individui, facenti parte di una setta oppure praticanti forme di “satanismo solitario”»(2). Detto, fatto. E quando viene interrogato dai poliziotti, sempre il “benemerito” Spaulding di La casa dei 1000 corpi – poi sviluppato, ovviamente in chiave western, in La casa del diavolo – non esita a definire i quattro malcapitati di cui sopra «ragazzini viziati e stupidi». Ma i poliziotti non sono da meno, a giudicare dai commenti sulla sua collezione di reperti macabri: «Guarda quante schifezze. Chi ha un posto così andrebbe subito schedato», dice uno di loro. Per questo anche i sedicenti tutori dell’ordine faranno una gran brutta fine. Insomma, le premesse per una chiave di lettura sociopolitica ci sono tutte. L’ennesimo spettacolo raccapricciante, in puro stile exploitation, sta per cominciare. Questa volta non bastano gli omaggi a Herschell Gordon Lewis, Tobe Hooper, Sam Peckinpah, John Carpenter, Dario Argento e inevitabilmente Roman Polanski, le fonti principali – cinematograficamente parlando – della catena filmografica di Rob Zombie. Per comprendere fino in fondo da dove provenga o come si organizzi la coazione a ripetere che l’autore ha inteso strutturare sin dall’esordio come regista, in un universo coerente e osmotico di musica e immagini, bisogna per un attimo mettere da parte la propensione a collocarlo dentro un panorama strettamente cinematografico. I richiami diretti ad altri film noti, citati, enunciati, esibiti si spingono ben oltre le pratiche meta-cinematografiche e intermediali che in gran parte sono invece sufficienti per orientarsi nell’universo audiovisivo di un autore come Quentin Tarantino, comunque di riferimento per Rob Zombie, che di sicuro funge da spartiacque nella storia del post-cinema di genere contemporaneo, maniacalmente autoreferenziale. Ci vuole ben altro per mettere a fuoco la strategia assai più estremistica adottata poi da Zombie, autentico «terrorista dei generi», per usare una definizione un tempo calzante al nostro Lucio Fulci. Detto altrimenti, la componente cinefila, pur così importante e marcata da La casa dei 1000 corpi a Le streghe di Salem, non ci porta molto lontano quando sono in ballo le ragioni intrinseche di una vocazione a rappresentare senza tregua, soprattutto senza scampo per le numerose vittime di turno, appositi dispositivi criminali in cui soggetti isolati, ma più spesso uniti da legami familiari, di setta o di clan, agiscono indisturbati. Agiscono, come sappiamo, al riparo dall’azione di contenimento puntualmente inefficace delle forze di polizia, spietatamente simmetriche ma impreparate, in quanto espressione disfunzionale di un modello istituzionale supponente, sciovinista e repressivo. I deliranti mostri di Rob Zombie combattono, adoperando il codice linguistico delle atrocità più impensabili e delle stragi, un sistema perciò condannato senza pietà alcuna, né scappatoie eufemistiche e moraleggianti. Gli emissari del potere istituzionale, nella prospettiva agghiacciante di Zombie, soccombono al cospetto di quel Male assoluto e metodico. In ogni coppia assortita di film (pensiamo ai due dittici contigui composti rispettivamente da La casa dei mille corpi e La casa del diavolo e da Halloween. The Beginning e Halloween II) o in ogni esemplare per ora isolato (Le streghe di Salem) questo Male, una volta stanato, provocato, evocato, si rigenera in forme e figure diverse, antiche, tradizionali e contemporanee, non fa differenza. Un Male di tal fatta, degenere o che degenera dentro il tessuto sociale ordinario, conservatore e di massa, vanta radici lontane, compulsive. Dunque inestirpabili. Alle quali il virtuoso e sempre ispirato Zombie, (nick)nomen omen, provvede a restituire un palcoscenico, una scena del crimine moltiplicata all’infinito, una messa in campo e in quadro incontenibili. Sceglie quindi di connotare spesso e volentieri in termini diabolici l’entità omicida dalle innumerevoli maschere o dai volti sintomatici. C’è un antagonismo implacabile, a largo spettro, frutto di un cortocircuito tra ripetizione e differenza, o tra originalità intesa ora come atto dovuto nei confronti di origini inequivocabili, ora come attivazione ex novo di un’origine. Cosicché, quando l’incarnazione malefica, solitaria o sociale, si manifesta e si scatena ecco che è già troppo tardi. Diventa impossibile arrestarla, sconfiggerla. Per il semplice motivo che in questa fase avanzata del disagio contestuale non è (più) concepibile disinnescare il retaggio dei vari soggetti dediti al culto omicida, vecchi e nuovi, dagli assassini compulsivi, che operano in proprio o in gruppo, dalle famiglie alle congreghe di streghe, tutti uniti dal criterio della riproducibilità e della serialità. Non esistono soluzioni, né spazi nei suoi film per aperture o finali riparatori. Recuperare la normalità smarrita è una pia e anacronistica illusione, come l’ipotesi sia pur remota di sradicare dalla storia americana contemporanea il germe mostruoso che ha prodotto e riproduce i suoi fantasmi di lunga durata. Il film di Rob Zombie, o più in generale il suo sistema operativo artistico – sconcertante non tanto per quantità di nefandezze delittuose mostrate ma per intensità, continuità, morbosità concettuale – è un fenomeno che si spiega e dispiega solo guardando al contesto, cui il testo perennemente riconduce lo spettatore attento mediante una catena di indizi. I suoi mondi ignobili, nondimeno verosimili, quantunque portati alle estreme conseguenze espressioniste, assai poco metaforici ed eufemistici, complici le modalità espressive e iconografiche stesse con cui vengono restituiti generano un’impressione di (ir)realtà. Sono cioè il sintomo di qualcosa che non si afferra con le armi spuntate della preparazione cinematografica pur ortodossa e volenterosa. Perciò non fanno ridere, non più di tanto, al di là delle intenzioni. Né provocano ribrezzo, ma spesso reclamano una traumatica, (in)sostenibile pietà. In altre parole i paradigmi violenti reiterati istituiti da Zombie in veste director, che definire “film” è assai riduttivo, più affini alla sfera oramai plurale dell’immagine audiovisiva e dei suoi sparpagliati canali di diffusione, prendono forma e trovano spiegazioni plausibili dentro una concezione visionaria retroattiva, inequivocabilmente politica e sociologica, perciò tanto più allucinata e allucinante dell’America. A monte di questa proliferazione di personaggi spinti oltre il limite dell’atrocità autistica, emblematici di una categoria di disperati, vessati, emarginati organizzati, ci sarebbe un fenomeno che Giorgio Galli ha così descritto: «L’emarginazione di quelle culture alternative ha dato luogo a un’esplosione del demoniaco, inteso come situazione favorevole al potenziamento di energie negative che, per quanto concerne la nostra quotidianità, possono essere esemplificate dai serial killer e (secondo alcuni) perfino dalla musica che ascoltiamo»(3). Non è un caso che già Arthur Lyons, qualche anno prima, avesse posto l’accento sulla «realtà delle congreghe, che da incontri estatico-orgiastici di liberazione si sarebbero trasformate, sotto l’influsso della Chiesa, in ciò che essa temeva di più: riunioni realmente sataniche»(4). Ogni film del regista rimanda in definitiva non al cinema, nonostante la saturazione di tracce in tal senso, ma a ciò da cui il cinema stesso, volente o nolente, di genere e non, ha tratto ispirazione. Zombie non rifà i film altrui, ne eredita le suggestioni per procedere a uno scavo archeologico. Donde la propensione al prequel e al sequel, eccedendo la misura o scavalcando il prototipo senza soluzioni intermedie. Lo si evince dalla logica che salda Halloween. The Beginning (dove, non a caso, l’azione prende le mosse dall’età kennediana, in cui i segni del regicidio sono nell’aria) alla consequenziale, stravagante parabola amorale sul familismo di Halloween II. Il peccato originale, dell’America e della cultura satanica di Zombie, comporta ogni volta la terribile «ossessione di cui l’eccidio di villa Polanski fu l’antefatto». Vale a dire «quella dei serial killer, un filone criminale ingigantito a dismisura e divulgatosi, grazie anche a una strana convergenza (cinema, giornali, televisione e la letteratura alla Thomas Harris) che ha conferito epos alle truci imprese degli assassini psicopatici, portando ancor più alla luce la morbosa curiosità che tragedie come quelle provocate da Manson suscitano in quasi tutte le persone normali»(5). Quanto basta per rileggere l’intero percorso dell’ex rockstar, poi cineasta indipendente, come un invito all’incubo, molto americano, per non dire globale. Rob Zombie, come i Rolling Stones rispetto ai Beatles, si è così autocandidato a offrire spunti concreti alla demistificazione del Sogno americano. Come già nel 1964, in concomitanza con i primi splatter di Herschell Gordon Lewis e a un anno dal delitto Kennedy, aveva fatto Malcolm X, futuro candidato all’obitorio, in un discorso tenuto a un congresso sull’uguaglianza razziale: «No, noi non abbiamo mai visto la democrazia. Tutto ciò che abbiamo visto è l’ipocrisia. Non abbiamo visto alcun Sogno americano. Abbiamo esperienza solo dell’Incubo americano.

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