Pusher 3 - L’angelo della morte. Topografia del male

Mirco Moretti
Nicolas Winding Refn n. 4/2017

Nell’aprile del 2005, a Copenaghen, alcuni uomini mascherati escono da due automobili e penetrano all’interno di Christiania imbracciando armi automatiche. Si fermano nel bel mezzo di Pusher Street aprendo il fuoco contro la folla, uccidendo una persona e ferendone altre tre. Sono membri di una gang di spacciatori, in guerra per il controllo del traffico di hashish a causa della svolta a “tolleranza zero” del governo danese. Chissà se qualcuno dei membri del commando è anche tra i protagonisti di Pusher 3. Il film, che vede la luce nello stesso anno della sparatoria, è il terzo e conclusivo capitolo della trilogia criminale di Nicolas Winding Refn. Più vicina, nella struttura, alle serie tv antologiche che a una saga vera e propria, la trilogia è ancora – nonostante le esplosioni di violenza che sconfinano nel gore, girate con una freddezza e una naturalezza realmente disturbanti – il racconto di una storia basata sui personaggi. Pusher 3, anzi, poggia quasi completamente sulle stanche spalle di Milo, il trafficante serbo invecchiato, interpretato ancora da Zlatko Buric.

Milo si sposta a piedi, continuamente, su un percorso fisso e prestabilito: un fazzoletto di territorio nel mezzo di un quartiere multietnico – nel film si sentono dialoghi in serbo, albanese, danese e arabo – di Copenaghen. Il suo è un mondo piccolo e dal fiato corto, le cui prospettive si sono rimpicciolite con gli anni. Attraversa incroci, sale e scende dai marciapiedi, entra ed esce dai locali: intanto, ai nostri occhi, si trasforma progressivamente in un guscio vuoto. Più si impegna per inseguire gli obiettivi che crede a portata di mano, più se ne allontana, avvicinandosi invece al punto di non ritorno: ché il pusher vero e proprio, tradotto letteralmente come “colui che spinge”, è Refn, come sempre innamorato dei suoi protagonisti ma spietato nello spingerli ai limiti. La telecamera a spalla vacilla, ansima, zoppica ma non si stacca mai, rendendo percepibile, inequivocabile e progressiva la discesa agli inferi (come al solito il regista gira le scene in ordine cronologico). I passi di Milo sono come tratti di matita che uniscono puntini sulla mappa: il ristorante in cui si prepara la festa per il venticinquesimo compleanno di sua figlia Milena, che ha gli occhi di ghiaccio della bellissima Marinela Dekic (pur rappresentando la famiglia, ovvero l’aspetto della sua vita che Milo ritiene il più importante e genuino, Milena è più spietata e venale del padre: se per quest’ultimo i soldi sono necessari per assolvere ai doveri di genitore, la ragazza vuole entrare nei suoi traffici e reclama una percentuale sui proventi dello spaccio per semplice avidità); la trattoria che egli stesso gestisce, dove si affanna a preparare con le sue mani il cibo per i sessanta invitati (finendo però per intossicare la maggior parte dei suoi collaboratori e tirapiedi); il covo di una gang di albanesi – giovani e pericolosi concorrenti, ambiziosi e senza scrupoli – che fingono di voler collaborare con lui ma, in realtà, intendono fregarlo e spodestarlo; il centro di ritrovo di un gruppo di tossici ed ex tossici anonimi del quale il nostro fa parte.

Milo vuole davvero smettere di farsi, proprio così: quella che potrebbe essere una deriva da black comedy con tutte le carte in regola, nelle mani di Refn resta magicamente parte dell’insieme iperrealista e melodrammatico. E basterà una piccola deviazione, l’aggiunta di un puntino nel percorso, a fare ricascare Milo nell’uso di eroina: il ristorante ove l’uomo si reca dopo l’emergenza intossicazione per ordinare sessanta porzioni di pesce fritto da servire agli ospiti. Qui Milo subisce una sorta di stupro psicologico da parte di un giovane spacciatore e sua vecchia conoscenza (Kurt “the Cunt”, una faccia già vista nel 2004 in Pusher II), che gli offre una dose di eroina. Il vecchio trafficante – che non si fa da cinque giorni, come ha orgogliosamente affermato all’inizio del film durante una seduta di terapia di gruppo – rifiuta. Il pusher insiste, viscido e sibillino: «Tu dici di no, ma vuoi dire sì». Milo cede immediatamente, complice la pressione che lo sta spingendo nell’abisso, e si chiude in bagno a fumare la sua dose come un pischello qualunque.

Durante l’arco narrativo di appena 24 ore, diventa chiaro che la famiglia, la volontà di “ripulirsi” e la gestione della trattoria sono solo illusioni, fallimenti consolidati in attesa di crollargli addosso. L’unica cosa che Milo è disposto a difendere con ogni mezzo è il proprio potere, ovvero la più grande e fragile delle illusioni, poiché il suo ruolo di drug lord è in realtà vicinissimo alla fine: l’uomo è solo un vecchio trafficante sentimentalmente legato alla cara vecchia eroina, che non sa che farsene dell’ecstasy, che non sa neanche distinguere le pilloline da innocue caramelle alla menta.

L’uomo d’affari, il ristoratore, il padre di famiglia, il trafficante scaltro: tutte le facce di Milo – perlopiù maschere sottilissime – vengono lacerate dalla furia cieca che si scatena quando i suoi concorrenti osano usare il suo ristorante per i loro affari, trattandolo come un tirapiedi qualunque. Per difendere il suo regno vacillante, complice una dose di speed assunta inconsapevolmente, non esita a sfondare crani a colpi di martellate, a rischiare il tutto per tutto, a chiedere l’aiuto del suo vecchio amico Radovan (Slavko Labovic, già apparso nel 1996 nel finale del primo Pusher), ripulito e riciclato in pizzaiolo di successo, per fare a pezzi i cadaveri scomodi – con freddezza e metodi ancora professionali, nonostante la nuova vita – e sbarazzarsene senza lasciare traccia. Impossibile non pensare, in questo pre-finale estremo e grondante sangue, agli eccessi disturbanti di The Eight Immortals Restaurant: The Untold Story di Danny Lee e Herman Yau (1993), mentre la colonna sonora minimalista di Peter Schneidermann (accreditato come Peter Peter) accentua i momenti più duri del film con lo stesso effetto di un coltello girato in una piaga, aumentando il volume quando aumenta la tensione. Pusher 3 non è soltanto il capitolo conclusivo della trilogia. È anche l’ultimo film della prima fase della carriera di Refn. Una fase “minore”, durante la quale il regista ha realizzato film – parole sue – «secondo i principi e le regole generali con cui realizzare un grande film»… E pagare i debiti, aggiungiamo noi. Da questo momento in poi inizia la seconda fase, ovvero – ancora con le parole di Refn – «i film realizzati esclusivamente secondo le mie regole, i film che io avrei voluto vedere».

 

 

CAST & CREDITS

Titolo originale: Pusher III; regia: Nicolas Winding Refn; sceneggiatura: Nicolas Winding Refn; fotografia: Morten Søborg; scenografia: Rasmus Thjellesen; costumi: Jane Whittaker; montaggio: Miriam Nørgaard, Anne Østerud; musiche: Peter Peter; interpreti: Zlatko Buric (Milo), Marinela Dekic (Milena), Slavko Labovic (Radovan), Ramadan Huseini (Rexho), Ilyas Agac (Lille Muhammed), Kujtim Loki (Luan), Vanja Bajicic (Branco), Levino Jensen (Mike), Marek Magierecki (Mitja), Sven Erik Eskeland Larsen (Svend), Karsten Schrøder (Røde), Hakan Turan (Ali), Susan Petersen (Marie), Gitte Dan (Lis); produzione: Det Danske Filminstitut, Nordisk Film, TV2 Danmark, Pusher III Ltd., NWR Film Productions; origine: Danimarca, 2005; durata: 90’; premi: premio Napapijri per la miglior interpretazione a Zlatko Buric al Courmayeur Noir in Festival 2005; home video: dvd Blue Swan; colonna sonora: inedita.

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