La sovranità sul debito

Luigi Iannone
L’altra faccia della moneta – Per una filosofia della sovranità politica e finanziaria n. 4/2013
La sovranità sul debito

La globalizzazione è fenomeno antico. Hirst e Thompson la collocano tra il 1870 e il 1914 e Wallerstein all’epoca delle scoperte geografiche (1). Ma in un contesto come quello attuale, dove la capacità di coinvolgimento di cittadini che partecipano ad una socialità comune tende sempre più a scemare, vengono evidenziate – come mai era accaduto nella storia dell’uomo e in tutta la loro pericolosità – le relazioni asimmetriche tra politica ed economia. Ed è evidente la dissonanza tra il quadro ermeneutico che il pensiero dominante ci propina e i fenomeni empirici sui quali quotidianamente ci misuriamo. Tali relazioni rappresentano solo un aspetto, necessario ma tutt’altro che sufficiente, per comprendere come i processi della governance mondiale siano radicalmente mutati e come la validità teorica della moderna globalizzazione vada sottoposta a verifiche non approssimative per non incorrere nell’errore, già segnalato da Giorgio Agamben, di porre la più oscura e irrazionale delle religioni, quella del denaro, al centro di ogni ragionamento oltre che di ogni azione.

Le vicende degli ultimi anni forniscono abbondante materiale per non cadere in questa tentazione e se si mantiene una linea di oggettività si scopre una situazione assai diversa da quella descritta dai media. Infatti, della globalizzazione economica emerge, da un lato, un quadro inclusivo senza dubbio positivo contrassegnato dalla interdipendenza, dalla fluidità delle comunicazioni e degli scambi commerciali e dalla mobilità delle persone; dall’altro, come questi stessi elementi, se incrementati all’ennesima potenza, debbano essere indisgiungibili da una riflessione che li segnali anche come moltiplicatori di diseguaglianze sociali.

La ricerca empirica mostra che nell’interpretare la moderna mentalità capitalistica è perciò utile non aderire ad una logica catastrofista e, per un altro verso, in maniera complementare, raccogliere la sfida facendo appello a motivazioni che appartengono sia alla sfera degli interessi particolari e privati sia ai valori comunitari, perché la questione riguarda l’incapacità della politica nel riformare un modello di società che contrappone stato e mercato e assolutizza il momento individuale rispetto a quello collettivo.

Tale mentalità trova tuttavia corrispondenze nel quotidiano, sovrastando ogni aspetto del vivere civile, e si impone come una delle questioni centrali del nostro tempo. Che si sia affermato un modello di tal genere, accompagnandosi ad una naturalizzazione del disagio sociale che tende a rendere croniche le condizioni di marginalità, e quanto siano distanti un’etica sociale dalla moderna etica economica ridotta a crematistica, è sotto gli occhi di tutti.

La crisi divampata in tutta la sua furia in questo primo scorcio di terzo millennio ha molte cause, solo in parte riconducibili al passato: “Il vocabolo crisi – scriveva Ivan Illich nel 1978 – indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i Paesi diventano casi critici. Crisi, parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘punto di svolta’, ora sta a significare: ‘Guidatore dacci dentro!’ Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale” (2).

La causa più evidente è intrinseca al modello economico ed al fatto che i rapporti con la politica si siano diametralmente capovolti. È proprio partendo da tali presupposti che le pretese morali di volta in volta sollevate dall’azione politica paiono non avere più alcun senso. All’inizio, come in un incendio che si propaga lentamente e poi diventa devastante, il mondo aveva accolto supinamente le prime avvisaglie e questa crisi era vista come un momento di transizione, dato che riguardava essenzialmente l’indebitamento delle famiglie americane; in breve tempo si è passati alla crisi dei subprimes, cioè i prestiti ipotecari ad alto rischio, ed infine al sovraindebitamento degli stati nazionali che quando si appesantiscono con prestiti a lungo termine sanno di dover pagare interessi assurdi.

Non secondario è il ruolo della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale che garantiscono dei tassi più abbordabili ma come contropartita pretendono un rigore economico che, se portato alle estreme conseguenze, ha effetti devastanti sulla vita dei cittadini. Ora, la riduzione della economia reale a scapito della finanza, l’aumento del debito pubblico ed una guerra dichiarata apertamente tra ciò che resta degli stati nazionali e gli speculatori ha fatto esplodere una economia di indebitamento che dà in pegno il futuro.

Questo capitalismo deterritorializzato può mettere in disparte l’economia reale, senza che la mano invisibile regoli più nulla (3), ha la forza di imporre sui mercati di scambio contrattazioni del valore di svariate volte il PIL mondiale e mobilita le masse affinché si favorisca la crescita attraverso il consumo. Alla luce di questi elementi è chiaro che la centralità e l’influenza dei mercati finanziari a livello globale sono smisurate. Un capitalismo finanziario che dà conto del suo operato solo agli azionisti e dove quasi il 70% dei flussi è controllato da una dozzina di banche e SIM. Tutto ciò non va decontestualizzato, altrimenti ci si nasconde furbescamente dietro lo spettro dell’eccezionalità: questa è la sua logica di fondo, che si regge anche sul tentativo di un deterioramento antropologico sotterraneo, durevole ma evidente.

È quanto mai arduo fornire una topografia esaustiva dei problemi ma la mobilitazione instilla dosi crescenti di paura grazie a previsioni sempre più pessimistiche, che obbligano a restringere ancora di più i diritti, le sicurezze sociali e le condizioni di lavoro. Nel suo percorso di trasformazione collettiva determina diseguaglianze crescenti che si evidenziano soprattutto attraverso canali conosciuti: riduzione del welfare e riassorbimento della capillare rete di garanzie previste dal diritto del lavoro, disoccupazione, delocalizzazioni (il che permette di privare anche i sindacati nazionali di una capacità contrattuale), deindustrializzazione con guadagni speculativi, riduzione dei salari (che, come in un circolo vizioso che si auto-alimenta, indurrà le famiglie ad indebitarsi), precarizzazione del lavoro e contestuale sostegno a politiche di immigrazione per favorire basso costo del lavoro, innalzamento dell’età pensionabile, eccetera.

Perpetuando il proprio asservimento alla ricerca illimitata della ricchezza si provoca quel deterioramento antropologico di cui sopra e un radicalizzarsi delle tendenze narcisistiche. Cristopher Lasch le ha tratteggiate nel suo libro più famoso che è del 1979, in cui descrive questa nuova narrazione su base nichilista, dove il soggetto si afferma grazie all’accumulo di beni per distinguersi dalla massa, dalla società e dalla famiglia (4). Di grave c’è che ora questa mobilitazione individuale modella anche lo spazio pubblico: l’essere individui e non società si associa ad una ossessione per la sicurezza e si traduce in un pregiudizio per la dialettica politica e per le scelte di carattere collettivo. Una volta che questo processo è giunto a compimento, affermazioni come quella di Margareth Thatcher, “non esiste la società, esistono solo gli individui”, possono essere contrabbandate come uniche verità.

In più, proprio perché c’è questo rinchiudersi in una sorta di solitudine solipsistica, tende a scemare l’aspirazione al futuro che aveva alimentato i processi democratici nella seconda parte del Novecento e rinvigorito il dibattito pubblico. È un capitalismo che ha “pulsioni autodistruttive” perché non vuole più nessun interlocutore sociale o politico (5), peraltro – diversamente dal passato – sostenuto da una forza titanica come la Tecnica e in perfetta simbiosi con essa.

Le ricchezze si muovono a velocità vertiginosa da un capo all’altro della terra come mai era avvenuto, e contestualmente si smantellano diritti giuridici con la stessa facilità con cui si vendono e comprano titoli azionari. La tecnologia velocizza infatti in maniera impressionante le operazioni ed è moltiplicatrice degli investimenti. Più del 50% degli scambi di Wall Street sono definiti high frequency trading, cioè gestiti da computer e dai loro algoritmi e si basano sulla duplice pretesa contraddittoria di garantire nella stessa misura profitti e sviluppo sociale, interessi di parte e bene comune.

Si aggiunga che questo apparato nichilistico che slega completamente l’economia finanziaria da quella reale, anche se non viene riconosciuto nella sua concreta configurazione, assume la forma di una totalità strutturata difficilmente scalfibile. E ciò ha contribuito alla rimozione di ogni residuo trascendente che ormai si realizza solo nella dimensione privata. Ne era stato acuto osservatore Augusto Del Noce, quando ne Il problema dell’ateismo, affermò che pure il processo delineato dallo storicismo marxista sarebbe stato riassorbito dalla concezione nichilistica del capitalismo.

Si è arrivati, negli ultimi decenni, alla globalizzazione come processo sempre in fieri e al suo carattere intrinsecamente ideologico in cui si tende a sopravvalutare oltre ogni misura l’efficienza dei meccanismi di produzione e consumo, accompagnandoli con definizioni moraleggianti universalmente valide (democrazia, diritti umani, libertà economiche, eccetera) ma in una prospettiva diametralmente opposta all’antica idea di globalità, che garantiva le identità pur nell’ottica di scambi commerciali e mobilità di persone e di culture (6).

Questo nucleo di valori si inserisce in una cornice di filosofia della storia nella quale, per dirla con Fukuyama, essi vengono definiti universalistici ma solo in quanto occidentali e perciò esportati come fossero delle merci. La conseguenza è che gli “altri” sono implicitamente accusati di ritardare la fine della storia, di essere d’intralcio all’affermazione e al consolidamento di una nuova politica che si fonda sul primato dell’economia, la retorica dei diritti e l’esaltazione dell’individualismo.

Questo capitalismo totalitario può esercitare prerogative sovrane perché ci avviamo in un mondo unificato dalla economia e cristallizzato nello scenario disincantato delle merci e l’idea non più peregrina di uno Stato planetario rappresenta il consolidamento finale di un nomos che dovrebbe passare attraverso momenti intermedi di cui già intravediamo gli albori. Facendo infatti maturare l’esperienza di un modello multipolare che aiuterà a rendere standard preferenze e scelte individuali, tutti i processi potranno prima o poi essere ricondotti alla specificità occidentale. In un contesto di questo tipo aumentano le diseguaglianze sia tra i Paesi sia all’interno di ciascuno di essi (ciò va letto in parallelo con quanto accade in Asia, in specie in Stati come la Cina, dove si cresce grazie a strumenti di sfruttamento della forza-lavoro e vengono sperimentate forme “spurie” di capitalismo, mentre, al contrario, solo l’Africa continua ad impoverirsi nonostante il neo-colonialismo delle multinazionali).

Un ulteriore elemento negativo è rappresentato dal fatto che il capitale finanziario elude il controllo degli Stati ai quali non resta che “la sovranità sul debito”. Il rigore economico, infatti, oltre ad aver chiarito che la sovranità monetaria non appartiene più ai singoli Stati, pone al centro di ogni politica la questione del debito. Le banche (ma anche le multinazionali, le società d’affari e quant’altro) sono per loro natura impolitiche ed è quindi illusorio pensare che esse possano avere un benché minimo afflato verso l’interesse nazionale. Fino a qualche anno fa chiedevano agli Stati di essere aiutate – pena il fallimento – ora invece incamerano profitti enormi e si muovono con l’abituale spregiudicatezza. Non deve perciò essere trascurato il fatto che la politica non governi i processi in corso ed in una sorta di accettazione passiva dell’esistente appaia succube di scelte fatte da altri, e quindi opti per l’integrale adesione a tale modello, agendo solo per “tranquillizzare i mercati”.

Questo incontro alchemico viene portato a termine tramite l’assunto per cui la politica agisce solo localmente mentre il capitalismo opera globalmente e con strategie di lungo periodo. Quest’ultimo infatti sembra non più capace di auto-regolamentarsi, dando così sfogo alla sua teoria palingenetica di salvezza e, quindi, temi come la rappresentanza popolare, la democrazia e la solidarietà vengono ritenuti solo utili grimaldelli ideologici con la conseguenza, del tutto dimostrabile, di non essere mai concretamente connessi con il mondo reale.

Da questo punto di vista, se gli Stati non sono più vantaggiosi per alcun tipo di interesse è difficile prevedere che la sovranità, così come si è andata costruendo negli ultimi due decenni, possa sopravvivere, soprattutto se il vero potere si muove beneficiando delle massime libertà e franchigie. Già da adesso gli Stati operano da cuscinetto, nella misura in cui si comportano quasi esclusivamente come negoziatori tra interessi sovranazionali e transnazionali e interessi particolari interni e quindi la politica, nel tentativo di modellare un nuovo rapporto tra capitalismo e democrazia, dovrebbe intercettare meccanismi in grado di controllare i movimenti del capitale finanziario e non solo di rilevarne le incongruenze ed imporre alla Borsa di fare quello che aveva sempre fatto, cioè finanziare le aziende.

Come emerge assai nitidamente dalla situazione attuale, servono soluzioni politiche globali affiancate da forme partecipate a livello locale e più penetranti di democrazia diretta. Ciò sarebbe già un buon punto di partenza. In realtà, sarebbe necessaria una radicale correzione delle posizioni teoriche di fondo. Il fatto che, per esempio, la popolazione continui ad aumentare a dismisura, le risorse siano limitate e si invochi lo sviluppo infinito (quasi a rendere illimitato ciò che per sua natura non lo è) evidenzia un corto circuito ideologico “e soltanto una fede tenace e irrazionale può spiegare il fatto che gli economisti e i loro adepti continuino a non capirlo” (7). In definitiva, nessuno vede come soluzione un ritorno a forme precapitalistiche ma è altrettanto sbagliato pensare che la condizione attuale si possa imporre come affermazione storica definitiva di una “metafisica capitalistica”.

 

(1) Cfr. P. Hirst, G. Thompson, La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1997; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino, Bologna 1997.

(2) I. Illich, Disoccupazione creativa, Boroli, Milano 2005, p. 95.

(3) Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano 1977, pp. 442-444. Contestualmente andrebbe ricordato anche Teoria di sentimenti morali, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1995, p. 660.

(4) Cfr. C. Lasch, The culture of Narcissism: American Life in an Age of Diminishing Expectations, Warner Books, New York 1979.

(5) Cfr. L. Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, Torino 2005, p. 258.

(6) Cfr. U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999, pp. 22-27.

(7) S. Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. IX.

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