"Trauma". Argento e lo specchio dipinto

Andrea Rurali
Dario Argento n. 15/2022

«Il cinema è uno specchio dipinto», diceva Ettore Scola. Non è difficile mappare questo pensiero nella geografia del suo cinema, nelle arterie pulsanti dei suoi film, travolti da un umanesimo di fondo talmente maturo da rendere le storie e i personaggi uno spaccato limpido del mondo concreto. Perché il cinema non è solo un mezzo di rappresentazione, ma un catalizzatore inesauribile di racconti, il principe dello storytelling abile a veicolare messaggi indicando le coordinate della sua diffusione. Un medium caldo e partecipato, capace di piegare la realtà alle leggi della finzione, ma altresì attento a non alterare la sua natura, l’origine della propria forma, il suo potere comunicativo. È dunque lo specchio, citato da Scola, che i registi dipingono a loro immagine e somiglianza, per stabilire un rapporto di reciprocità con il pubblico.
Tra i più assidui pittori su celluloide figura sicuramente Dario Argento: il suo universo rappresentativo, così riposto e personale, così puro e sfaccettato, è un quadro in continua metamorfosi. Una tela brillante dove a dominare è il rosso, colore del sangue, vivo e “profondo” come il leitmotiv della produzione artistica di Hermann Nitsch (che dipingeva di emoglobina le sue opere). Perché Argento ha il colore nel cognome, una tinta cangiante e in evoluzione. Colori, appunto, da sempre centrali nel corpus argentiano: dal giallo, anima del thrilling e del brivido che ha cosparso la prima fase della sua carriera, fino al rosso, segno prevalente dell’horror, di paura e rinascita, che ha inondato il successivo corso della sua filmografia.
Nel tracciare una linea di separazione tra il primo e il secondo Argento, fra quello più amato e quello più discusso dai fan, l’oggetto del contendere è un film radicato nel passato ma rivolto al suo presente storico, alla sua naturale esposizione: Trauma (1993), il lungometraggio che insieme a Opera (1987) ha marcato il punto di rottura con il trascorso identitario di Argento, investito dal febbrile impulso di revival e dal desiderio di riesaminare le sue creazioni precedenti.
Ecco che in quello “specchio dipinto” confluiscono le forze essenziali della materia argentiana con un abito diverso, più visionario e meno fattuale, con uno stile più aperto alla sperimentazione. E con il tempo come fedele alleato, protagonista e insieme spettatore, a legare passato e presente, prima e dopo, inizio e fine. Il Maestro del brivido è consapevole che non c’è più margine di replicare quel cinema rivoluzionario che aveva illuminato Profondo rosso (1975), Suspiria (1977) e Tenebre (1982), e l’unica via da percorrere resta quella della rivisitazione, della rilettura dei suoi capolavori primari con un approccio più romantico e istintivo.
Per mettersi alle spalle i problemi legati alla distribuzione globale di Opera, e quindi il passato, Argento decide di traslocare negli Stati Uniti, dove nel 1990 aveva girato l’episodio Il gatto nero di quel Due occhi diabolici firmato in coppia con l’amico George A. Romero. Durante la permanenza oltreoceano inizia a scrivere un breve racconto intitolato L’enigma di Aura, una favola nera che, al suo rientro in Italia, rimodella a soggetto di un film insieme ai collaboratori Gianni Romoli e Franco Ferrini. Per ultimare la sceneggiatura, contatta lo scrittore T.E.D. Klein, il cui contributo si rivela fondamentale per dare un respiro “americano” alla storia e donarle credibilità (come dichiarato da Argento nella sua autobiografia Paura uscita nel 2014 per Einaudi). Nasce Trauma.
È il 1993 quando il film arriva al cinema, con connotati e fisionomia da nuovo Profondo rosso: una serigrafia rinnovata che miscela caratteri e tematiche tanto care ad Argento e in cui emergono tracce del suo background personale. Eventi che hanno segnato la sua vita e, inevitabilmente, una fase ulteriore della sua poetica. In Trauma il fattore umano gioca un ruolo dominante, riaffiorano vecchie ferite familiari, spettri di un’epoca sofferente e corrosiva che si materializza nei titoli di coda, dove a catalizzare l’attenzione è il corpo scarno e sincopato di una ragazza. Si tratta di Anna Ceroli, figliastra di Dario, nata da una precedente relazione di Daria Nicolodi e scomparsa nel 1994 in un incidente stradale.
È a lei che il regista si ispira per dar vita al personaggio di Aura (interpretato dalla figlia Asia), un’adolescente affetta da anoressia. Proprio come Anna, che ai tempi soffriva dello stesso disturbo, un disagio devastante nei confronti della propria fisicità. Uno tra i tanti malesseri generazionali che dilagavano negli anni Novanta dinnanzi all’indifferenza di una società scapigliata e respingente, altresì miope di fronte al degrado culturale che la modernità aveva provocato. Strade violente, caos, criminalità, gente abbandonata al proprio destino: è questo lo scenario che viene delineato in Trauma, nella periferia americana in cui Argento decide di ambientare il suo racconto. Uno sfondo meno livido rispetto a quello fotografato da William Lustig nei suoi film, ma più liminare e alterato, gonfio dei residui politici lasciati da George H.W. Bush e in avvicinamento al trasversalismo della Third Way percorsa da Bill Clinton. Per Argento, infatti, conta tanto la cornice, e lo spazio, quanto il contenuto.
Quindi la storia e il suo messaggio. La sfida è mostrare il cambiamento di una sedicenne con disturbi alimentari (Aura) che, con l’aiuto di un disegnatore ed ex tossicodipendente (David), cerca di far luce sulla morte dei genitori.
Nel contenitore filmico di Trauma c’è tutta la cosmogonia argentiana: una trama slasher e un assassino, indizi disseminati, la presenza di animali (qui farfalla e geco), bambini come testimoni invisibili, la suspense, lampi di soprannaturalità, il male onnipresente. La Torino deserta di Profondo rosso cede il testimone a un’altrettanto desolata Minneapolis, metropoli patinata e, contestualmente, ghettizzata nelle sue suburbs tra civili emarginati (Aura e David) e freak disperati. Argento è attento anche all’aspetto mentale dei personaggi femminili, alle psicosi e ai loro traumi, come nel caso di Adriana Petrescu, madre privata della memoria che trova nell’atto di decapitazione il proprio viatico per la vendetta.
Nel finale emerge il senso più intimo dell’operazione: la camera riprende l’abbraccio tra Aura e David, le immagini diventano veicolo inalterabile di liberazione dal tormento. Un momento potente, di spontanea innocenza, che sembra il preludio al più classico happy end, salvo poi trasformarsi in un grido inatteso di malinconia. L’occhio della mdp si sofferma su musicisti di strada che suonano, l’obiettivo si avvicina al viso triste di Anna Ceroli mentre danza distratta, emblema di un dolore persistente che si cela dietro lo specchio segreto dell’anima. Uno specchio che Argento dipinge, con sentimento e trasporto, in suo ricordo.

CAST & CREDITS
Regia: Dario Argento; soggetto: Dario Argento, Franco Ferrini, Gianni Romoli; sceneggiatura: Dario Argento, T.E.D. Klein; fotografia: Raffaele Mertes; scenografia: Billy Jett; costumi: Leesa Evans; montaggio: Bennet Goldberg; musiche: Pino Donaggio; interpreti: Piper Laurie (Adriana Petrescu), Asia Argento (Aura Petrescu), Frederic Forrest (dottor Leopold Judd), Christopher Rydell (David Parsons), Laura Johnson (Grace Harrington), James Russo (capitano Travis), Brad Douriff (dottor Lloyd), Hope Alexander-Willis (Linda Quirk), Sharon Barr (Hilda Volkman); produzione: Chris Beckman per ADC e Overseas Filmgroup; origine: Italia, Stati Uniti, 1993; durata: 105’; home video: Blu-ray inedito, dvd CG Entertainment; colonna sonora: Cinevox.

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